lunedì 14 dicembre 2009

CAPITOLO PRIMO Morale dell'Antico Testamento

Iniziamo lo studio della morale biblica partendo dagli scritti dell'Antico Testamento, data l'importanza che essi hanno avuto e hanno nella storia della teologia.
La morale veterotestamentaria ha goduto sempre di molta considerazione nella riflessione morale cristiana.
Tra gli elementi passati in blocco nella tradizione morale cristiana abbiamo soprattutto: il decalogo e il comandamento dell'amore.
Come punto di partenza per la classificazione delle interpretazioni e concezioni morali dell'Antico Testamento, accettiamo l'ormai classica suddivisione dei suoi scritti in: libri storici, profetici e poetico-sapienziali.
Per cui suddivideremo lo studio del messaggio morale dell'Antico Testamento in tre parti:
- la morale della legge,
- la morale dei profeti,
- la morale della sapienza.

Questi tre modelli di morale non sono separati, né temporalmente né dal punto di vista del contenuto. Essi sono rinvenibili contemporaneamente nelle varie epoche e presentano molteplici connessioni, collegamenti e comunanze.

1. La morale della legge

Questo elemento della morale veterotestamentaria si presenta composta di vari strati e sviluppi. E' la stessa Sacra Scrittura, però, a compiere il tentativo di raggruppare la molteplicità delle disposizioni morali e religiose sotto il concetto di legge, che in ebraico viene denominata Torah.
La Torah ha assunto una tale importanza nella vita religiosa ebraica, tanto che il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia nei quali è contenuta quasi tutta la legislazione ebraica, viene spesso menzionato con il semplice termine di «legge».
Anche il Nuovo Testamento per indicare l'Antico Testamento utilizza il termine «legge» o da solo (Gv 10,34; 15,25; 1Cor 14,21) o unito al termine «profeti» (Mt 7,12; 22,40).

1.1. Il contenuto

La caratteristica fondamentale della legge o Torah consiste nella capacità di mettere insieme codici normativi di vario genere.
Dall'analisi del contenuto, infatti, si evince che l’intero ordinamento della legge è pensato come guida per la totalità della vita. Le sue prescrizioni possono essere suddivise nei seguenti tre gruppi:
- corpo di leggi giuridiche,
- corpo di leggi riguardanti il culto religioso,
- corpo di leggi riguardanti il comportamento morale.

Le prescrizioni prettamente giuridiche si riferiscono all'ambito del diritto penale, civile e processuale. Possono essere reperite nel «libro dell'alleanza» (Es 20‑23) e in ampie parti del Deuteronomio.
Le prescrizioni per il culto religioso si trovano principalmente nel libro del Levitico, ma anche in alcuni capitoli dell'Esodo e dei Numeri. Le norme più importanti costituiscono il cosiddetto «decalogo cultuale» (Es 34,14‑26), il «codice di purità e impurità» (Lv 1‑15) e la «legge di santità» (Lv 17‑25).
Le prescrizioni espressamente morali si trovano sparsi nell'Esodo, nel Levitico e nel Deuteronomio. Si tratta di disposizioni che riguardano il comportamento nei confronti del prossimo (Lv 19,11‑18.32‑37), norme riguardanti i rapporti sessuali (Lv 18,6‑30; 19,20‑22), e infine il decalogo, tramandato in duplice forma (Es 20,2‑17; Dt 5,6‑21).

La suddivisione descritta sopra non sempre è rinvenibile nei libri del Pentateuco o dell'intera Bibbia con questa specificazione. Spesso i diversi elementi sono mescolati tra loro. Prescrizioni cultuali, morali e giuridiche si trovano talvolta nello stesso capitolo e anche nello stesso versetto (cf, ad esempio, Es 22 oppure Lv 19).
Questa apparente confusione non può essere attribuita:
- alla incapacità di differenziazione;
- ad una consapevolezza legislativa non ancora sviluppata.
Non è vero, cioè, che alla mentalità giuridica arcaica non fosse ancora chiaro lo specifico dei singoli ambiti e non fosse ben chiaro lo specifico della morale.
La mescolanza delle varie norme può essere spiegata dal ruolo decisivo che in esse svolge la caratteristica religiosità di Israele.
L'ebreo, soggiogato dalla grandezza e dall'unicità di Dio, comprende tutte le prescrizioni come provenienti da Lui. La volontà di Dio è la fonte unica di tutti i comandi e le leggi. Tentare di separare queste due realtà vuol dire, per l'ebreo, rinnegare la fede in Dio.
E' errato considerare la Torah come un codice di comportamento morale puramente esteriore, solo perché in essa preval­gono norme che esigono o vietano azioni concrete.
Ripetutamente e chiaramente vengono tematizzati anche atteggiamenti interiori, come:
- l'amore per il prossimo (Lv 19,18)
- l'amore per lo straniero (Dt 10,19).
E' fuorviante, inoltre, considerare la Torah come un codice di leggi che si accontenti del minimo morale, perché, accanto a elementi di semplice buon costume, sono proposte esigenze morali molto elevate.
La morale della Torah intende spesso regolare il comportamento dell'ebreo nella vita di relazione, per cui può essere tranquillamente definita una morale sociale.
Le sue tematiche principali possono essere così sintetizzate:
- il fondamentale rispetto della vita umana (sebbene in vari modi limitato);
la pacifica convivenza di famiglie e tribù;
- la salvaguardia dell'istituzione del matrimonio e la perpetuazione della propria stirpe;
- la solidarietà con i parenti e i connazionali;
la difesa del popolo dai pericoli esterni;
- la salvaguardia dei socialmente più deboli: stranieri, schiavi, vedove, orfani e poveri.

1.2. Aspetti caratteristici

L'elemento primario e fondante del messaggio morale della Torah è il suo carattere teologico‑religioso.
La specifica religiosità di Israele presenta le seguenti caratteristiche:
- Israele crede in Jahvé come suo unico Dio,
- vive della convinzione che l'unico Dio è entrato in un particolare rapporto con lui,
- questo rapporto viene capito e interpretato con la categoria di alleanza, che può essere definita come: una comunione personale voluta, in modo permanente da Jahvé con sua libera scelta.
Il messaggio morale contenuto nella Torah viene sempre accolto e vissuto alla luce di questa originale religiosità, cioè:
- dal momento che Jahvé si rivela come l'unico Dio e viene creduto come tale, fa considerare provenienti da lui tutte le prescrizioni morali;
- la fede nell'alleanza fa comprendere le prescrizioni morali come clausole, stabilite da Dio, del patto, rispettando le quali il popolo prende parte attiva ad esso.

La coscienza della specificità di Jahvé, che trascende e permea tutte le cose, fa sì che le esigenze morali non vengano comprese come realtà a sé stanti, lasciate in balia dell'uomo, ma sono interpretate, al pari di tutta la realtà, come direttamente legate a Jahvé.
E' Lui il referente di ogni comportamento morale. Solo Lui comanda e proibisce.
Questa convinzione diventa sempre più radicata con il crescere della fede in Jahvé, Dio dell'alleanza.
Israele è sempre più convinto che colui che si rivela nella storia e nella vita del popolo come il suo salvatore e creatore fa sapere nei suoi comandamenti con quale comportamento il popolo lo può raggiungere e può conservare l'alleanza con lui, incrementando la comunione da lui fondata.

Da questa particolare comprensione teologica emergono quelle caratteristiche della morale della Torah, che la differenziano chiaramente dalla morale dell'ambiente circostante.
Queste caratteristiche sono ancora oggi determinanti per la comprensione cristiana della moralità biblica. Esse si possono così sintetizzare:

1.2.1. La legge morale è un dono di Jahvé

Le prescrizioni morali sono sempre precedute dal dono misericordioso di Jahvé, che consiste nella salvezza e nell'elezione del popolo.
L'osservanza delle clausole dell'alleanza non costituisce il contributo dell'uomo come partner autosufficiente di essa, ma è la risposta all'azione salvifica e liberante di Jahvé, risposta resa possibile dall'azione preveniente di Dio.

1.2.2. La legge morale è sempre di carattere sociale

I comandamenti, come le clausole dell'alleanza, sono sempre rivolte al popolo, con cui Jahvé ha concluso la sua alleanza.
Il primo destinatario delle clausole dell'Alleanza è la comunità di Israele. Questo, però, non significa che esse non si riferiscano anche al singolo.
La morale della Torah non intende raggiungere la perfezione del singolo, ma proteggere la vita comune, il bene della comunità e la salvaguardia dell'esistenza del popolo.

1.2.3. La legge morale giuda sicura nella vita

I comandamenti di Jahvé sono la guida sicura della vita umana, mostrano, cioè, le vie attraverso le quali il popolo può raggiungere la salvezza e conservarla.
La legge è un dono che rende felici e rallegra. Verso di esso l'uomo deve anelare e porsi in atteggiamento di gratitudine (cf, ad esempio, Sal 19 e 119).

1.2.4. La legge morale ha una struttura dialogica

Se tutti i comandamenti e norme risalgono alla volontà misericordiosa di Jahvé, diventa decisivo il compito morale dell'obbedienza ad essi, per cui ogni comportamento assume il carattere di un evento personale.
Il fine dello sforzo morale non è il rispetto di un ordine, ma il rispetto di Jahvé stesso. Ne consegue l’assioma: l'Israelita, chiamato da Dio, creda in lui, lo ringrazi e lo tema, con un'obbedienza incondizionata.
«La nostra giustizia, afferma il Deuteronomio, è osservare e praticare interamente questi comandi davanti al Signore nostro Dio, come ci ha prescritto» (Dt 6,25).

1.2.5. Alla legge morale va sempre obbedito

L’accentuazione dell'obbedienza fa sì che le singole disposizioni passino in second'ordine e possono essere modificabili. Possono, cioè, subire cambiamenti e sviluppi, dal momento che l'elemento essenziale non è la loro oggettività, ma l'obbedienza.
Ne consegue che è possibile adattare le norme alle mutevoli condizioni di vita del popolo, senza con ciò mettere in pericolo il nucleo dell'atteggiamento morale, che è caratterizzato dalla capacità obbedienziale.
In forza di questo principio, spesso viene richiesta l'apertura nei confronti di eventuali nuovi obblighi. Infatti, quando la sovrana volontà di Jahvé viene colta come la vera sorgente delle esigenze morali, è indispensabile un atteggiamento di continua attenzione ad essa e non alla oggettività delle norme.

1.3. Il dato di rivelazione

La morale della Torah non è comprensibile senza la fede in un Dio che si rivela a Israele. Il riferimento alla rivelazione, infatti, è la causa efficiente di ogni comportamento morale.
Diversi comandamenti della Torah presentano affinità con quelli dei popoli vicini. Ciò vale tanto per i «comandamenti condizionali», nei quali cioè le prescrizioni sono formulate casisticamente, quanto per quelli «apodittici», che presentano prescrizioni in forma di discorso diretto.
Per entrambi i generi e per i contenuti ad essi collegati si trovano molti paralleli nel mondo cultuale circostante.
Questa constatazione ci porta a concludere che Israele, nell'ambito della morale, ha avuto molto in comune con gli altri popoli dell'antico Oriente o che addirittura molto ha mutuato da loro.
La rivelazione caratterizza la morale della Torah non sotto l'aspetto formale, quindi, ma sotto l'aspetto sostanziale, e cioè che: l'uomo raggiunto dalla rivelazione di Dio deve guidare il suo comportamento morale a partire da Lui.
La morale veterotestamentaria non solo deriva la sua obbligatorietà da Dio, ma fonda in Lui anche il suo contenuto. La fede in Dio conferma, corregge e trasforma il fedele israelita.
Alla base di questa convinzione c'è una lettura teologica della rivelazione, secondo la quale questa non è comunicazione di cose che non possano essere conosciute in altro modo, ma autocomunicazione di Dio. Dio rivela «se stesso... e il mistero della sua volontà», che è volontà di salvezza e redenzione dell'uomo.
L'essenziale contenuto della Rivelazione è costituito da Dio che si rivela come salvatore, che viene incontro all'uomo in difficoltà morale e sociale. Esso è costitutivo anche del contenuto del comportamento morale dell'uomo.

Dal momento che la rivelazione e la sua recezione hanno una storia e accadono in varie tappe, ne consegue che anche il suo influsso sulle esigenze morali porta i segni della storicità.
Solo gradualmente, infatti, divengono chiare le conseguenze della progressiva autocomunicazione di Dio sul comportamento dell'uomo.
Con questa concezione possono essere spiegate, ad esempio, due delle più gravi debolezze della morale della Torah:
- l'esistenza di una morale sessuale che favorisce il maschio (cf., ad esempio, Dt 22,21 con 22,28s) o la possibilità di scioglimento del matrimonio concessa, secondo Dt 24,1‑4, solo all'uomo;
- l'appellarsi a Dio circa i metodi della conduzione della guerra, fino all'idea che Dio può comandare l'esecuzione dell'«anatema», cioè il totale sterminio di un popolo vinto (cf, ad esempio, Gs 6,17; 10,40; 1Sam 15,3).
Nel primo caso è evidente che il dato di rivelazione non è riuscito ancora ad influire sul dato culturale; nel secondo c'è una comprensione troppo angusta della rivelazione, nella quale si coglie solo l'assoluta potenza e severità di Dio.

2. La morale dei profeti

La tesi, talvolta sostenuta, che la vera morale di Israele sarebbe iniziata con i profeti, si è rivelata alquanto approssimativa.
I profeti si appellano continuamente alla più genuina tradizione di Israele, anche e soprattutto dal punto di vista della morale. Anzi, il loro messaggio non intende apportare novità al già ricco patrimonio morale, ma semplicemente ricordare al popolo la sua antica vocazione e i suoi tradizionali doveri.
Tuttavia contribuiscono a dare nuove accentuazioni alle esigenze morali, sia nel contenuto, sia nella comprensione formale.

2.1. Il contenuto

1. La prima caratteristica, tipica dei profeti, consiste nell'anteporre la morale al culto.
Gli obblighi cultuali non vengono negati, ma viene rifiutato con decisione, talvolta polemica, il tentativo di crearsi un alibi davanti a Jahvé con l'adempimento esatto dei rituali (cf Am 5,21‑25; Is 1,10‑17; Ger 7,21‑23).
Dedurre da ciò un rifiuto indiscriminato del culto da parte dei profeti sarebbe certamente sbagliato. La loro critica non si rivolge contro il culto come tale, ma contro le malformazioni che di fatto esso aveva acquisito nel tempo.
Si era isolato dalla vita quotidiana e veniva compiuto in modo da non avere conseguen­ze sulla sfera morale, oppure si accompagnava a una condotta di vita empia e criminale.
Per i profeti il vero motivo per cui il culto non viene ac­cettato da Jahvé perché: senza la giustizia e la rettitudine, sacrifici, preghiere e in­censi non hanno senso, sono inutili e causano anzi l'ira di Dio.
Il contenuto del messaggio profetico va, perciò, considerato globalmente non come l'esposizione di un tema, ma come l'an­nuncio di un evento: il giudizio divino sul culto.
Questa concezione della critica profetica al culto impedisce di vedere nel messaggio profetico il pericolo di moralismo.
Essi, infatti, non vogliono sostituire il culto con la morale e dar valore solo a quest'ultima. Reclamano semplicemente l'irrinunciabile significato della morale e si scagliano contro un culto totalmente slegato da essa.
Non mettono, tuttavia, in discussione il fatto che la fede in Jahvé possa, per principio, manifestarsi anche nelle azioni cultuali.

2. Un secondo punto chiave, del messaggio morale dei profeti, è la sottolineatura dei doveri sociali e cioè: il sostegno dei poveri, la difesa dei socialmente deboli, il superamento delle fratture in seno al popolo, il rispetto del diritto e l'osservanza della giustizia.
Questi sono i temi che i profeti riprendono continuamente e trattano con incisività ancora maggiore di quanto facesse la predicazione morale della legge.

2.2. Aspetti caratteristici

1. Come prima caratteristica va ricordato il carattere religioso del messaggio morale dei profeti.
Lo sguardo supera sempre il prossimo per raggiungere Jahvé, cosicché, malgrado tutte le sottolineature dei doveri sociali, non viene mai proclamato un semplice programma sociale.
Come già per la morale della Torah, anche per quella dei profeti, Jahvé è considerato l'origine delle prescrizioni.
Questo principio, però, viene perfezionato dall'idea che non solo la volontà di Jahvé, ma anche la sua essenza esigono determinati comportamenti.
Se Jahvé è giusto e misericordioso, anche l'uomo deve esserlo.
Nei profeti, poi, ricorre spesso l'idea che il popolo viene punito da Jahvé in seguito a un comportamento asociale (Mic 2,8; 3,3), ma gratificato se assume un comportamento socialmente corretto.
«Tuo padre forse non ha mangiato e bevuto? Praticava, però, il diritto e la giustizia; perciò ebbe prosperità! Difendeva la causa del povero e del misero e allora andava bene! Non significa questo conoscere me?» (Ger 22,15‑16).

2. Come seconda caratteristica va notata una maggiore interiorizzazione della morale. Questa peculiarità nasce, come per la morale della Torah, dalla particolare religiosità e teologia dei profeti. Il fondamento dei precetti viene, cioè, posto nella natura stessa di Jahvé e non più solo nella sua volontà.
Ne nasce una forte esigenza di aderire di più al significato del precetto e respinto un adempimento puramente formale ed esteriore di esso, perché i precetti vengono dedotti dalla natura di Jahvé, che gli dà maggiore consistenza.

2.3. Il dato di rivelazione

1. Anche per i profeti le esigenze morali sono originati da una esplicita rivelazione di Dio. Le prescrizioni morali sono, infatti, continuamente indicate, dai profeti, come parola di Jahvé, manifestazione della sua diretta volontà.
A un attento esame, però, il quadro si mostra più complesso.
I profeti non formulano nuove esigenze, ma si rifanno a quelle già esistenti.
Essi ordinariamente ricordano tradizioni morali che, anche se accettate nella fede come provenienti da Dio, hanno tuttavia, per il loro contenuto, molti paralleli extrabiblici, per cui difficilmente possono essere considerate rivelate da Dio in senso stretto.
Questo principio vale anche per quelle prescrizioni che appaiono per la prima volta nella predicazione profetica. Nessuna di esse, infatti, supera, per il contenuto, l'orizzonte dell'esperienza e del discernimento umani, così che si possano ritenere direttamente rivelate da Dio.

2. Sembra più prudente ritenere che determinate richieste morali siano rivelate in modo indiretto.
La rivelazione non è la diretta ispiratrice di dette le norme, le quali, tuttavia, non sono in contraddizione con la fede biblica, che, anzi, le rende praticabili.
Il nuovo modo di autocomunicarsi di Dio che i profeti sperimentano nella loro persona: un "Dio personale", vicino all'uomo, che si prende cura di lui e del popolo in modo materno.
Questa esperienza li costringe a riflettere, attentamente e profondamente, sui rapporti interumani e su come questi siano collegati a Dio stesso.
Il modo di essere e di fare di Jahvé li porta a richiedere maggiore perfezione nei doveri sociali, motivandoli con un adeguato atteggiamento interiore.
La rivelazione produce, così, un nuovo modo di vivere le esigenze morali e sprona ad una comprensione più profonda del suo rapporto con la realtà religiosa e teologica.
L'esempio dei profeti mostra che la riflessione sul passato, la volontà di ricordarlo e di restarvi fedeli, non porta a una semplice ripetizione e a una stagnazione, ma ad una vivificazione continua.
La rinuncia a parlare delle «visioni del loro cuore» (Ger 23,16) e la volontà di prescindere da se stessi crea la capacità di recepire il loro annuncio come proveniente direttamente da Dio.

3. La morale sapienziale

Il genere letterario degli scritti che vanno sotto il nome di libri sapienziali e nei quali si trova il modello di morale esso ispirato, si estende in un periodo di tempo di circa un millennio.
Ne consegue che il messaggio morale contenuto in questi testi abbia subito l'influsso sia della morale della legge, che di quella dei profeti.
La morale cosiddetta sapienziale ha, tuttavia, una particolarità talmente inconfondibile, da essere spesso paragonata alla sapienza orientale, più che a quella caratterizzante e decisivo della fede d'Israele.
Ne consegue che è impossibile non ammettere parallelismi con l'ambiente extrabiblico. Talvolta si tratta addirittura di vero plagio.
Nel libro dei Proverbi, ad esempio, (22,17‑23,11) si incontra quasi letteralmente un passo ripreso dal libro sapienziale egiziano di Amen‑Emope (X secolo a.C.).

3.1. Il contenuto

1. Negli scritti sapienziali i temi morali occupano uno spazio ampio, così che, soprattutto in quelli più antichi, si può avere l'impressione che si tratti di vere composizioni morali.
Questi temi sono molto vari e toccano quasi tutti gli ambiti della vita quotidiana. Possono, tuttavia, essere sintetizzati nella seguente esigenza: la vita morale consiste nel condurre bene le situazioni dell'esistenza in tutta la sua ampiezza e ricchezza.
L'accento viene posto soprattutto sulla sfera personale, per cui è difficile rinvenire direttive sui problemi sociali e politici.

2. L'attenzione al singolo conduce ad un caratteristico ampliamento dei problemi morali.
Accanto ad affermazioni sul giusto comportamento nei confronti di Dio e nei confronti del prossimo, si incontrano molte affermazioni che riguardano il comportamento verso se stessi.
Si trovano:
- esortazioni alla diligenza e alla modestia,
- al dominio delle emozioni e in generale alla moderazione,
- non essere gran bevitori,
- frenare la lingua,
- non cedere alla seduzione di una donna straniera e così via.
Saggio è colui che sa formarsi e controllarsi.

3.2. Aspetti caratteristici

1. La caratteristica più appariscente della morale della sapienza è il modo in cui essa viene presentata.
La sua trasmissione avviene, a differenza della legge e dei profeti, non proclamando direttamente prescrizioni o divieti, ma comunicando intuizioni ed esperienze.
Non si tratta di una morale del comando, ma di una morale fatta di consigli e di argomenti razionali. Ci si appella più alla ragione dell'uomo che alla sua volontà.

2. Nella visione sapienziale l'argomentazione razionale è desunta prevalentemente dalle realtà concrete: che cosa si deve fare o non fare emerge dalle azioni stesse e più precisamente dalle loro conseguenze.
Sono gli effetti, inseparabili dalle singole azioni, che mostrano se queste ultime siano raccomandabili o meno. Si ricorre, soprattutto nella sapienza più antica, più all'esperienza quotidiana e al buon senso che alle parole di Jahvé.

3. Un'altra caratteristica della morale della sapienza è di essere ordinata alla riuscita della vita umana, a un'esistenza il più possibile felice e armoniosa.
Vengono raccomandati atteggiamenti e azioni che possono dare buoni risultati e vengono sconsigliati modi di agire che possono produrre esiti negativi.
Questo modo di argomentare, spesso inteso come un'applicazione dello «schema azione‑esito», ha senza dubbio una tinta utilitaristica.
Tuttavia il pensiero sapienziale si distingue chiaramente da ciò che s'intende generalmente con «utilitarismo».

1. Le differenze
- La sapienza non considera isolatamente l'u­tile o il dannoso, ma tutto ciò che l'uomo coglie intimamente e necessariamente connesso con le singole azioni. Il saggio è profondamente convinto che il mondo è così coerente che ad ogni buona azione è collegato anche sempre un utile. Chi si comporta in modo moralmente corretto alla fine ottiene sempre successo.
- Una seconda differenza consiste nel fatto che l'utile e il dannoso dipendono soprattutto da come Jahvé giudica il comportamento umano. Perciò il fare o non fare una cosa dipendono soprattutto dal timore di un suo intervento punitivo. Esempio: «Non spogliare il povero... e non opprimere l'infelice, perché il Signore difenderà la loro causa e rapirà la vita ai loro oppressori» (Pro 22,22s). Tale motivazione è completamente assente dall'utilitarismo classico.
- Come terza differenza, infine, può essere considerato il fatto che, almeno nella sapienza più recente, si sconsiglia di considerare l'utile e il dannoso in modo rettilineo e progressivo e si invita a valutarlo un modo dialettico. Così nel libro del Siracide, del I secolo a.C., si dice: «Si può aver profitto dalle avversità e perdita da un colpo di fortuna» (20,9).

3.4. Il dato di rivelazione

1. La morale della sapienza viene presentata dalla Bibbia stessa come qualcosa che non è oggetto di una speciale rivelazione.
A differenza di quanto avveniva nella Torah e nei profeti, i singoli comandamenti non vengono più considerati come rivelati direttamente da Dio, ma come consigli che l'uomo stesso deve saper rinvenire nelle realtà intramondane.
A prima vista questa morale sembra poco teologica, perché si presenta in una veste del tutto profana.

2. Tuttavia in essa non mancano espliciti riferimenti alla teologia, perché è pienamente inserita in un orizzonte illuminato dalla fede.
Però è un orizzonte di tipo particolare: in esso non è decisiva tanto la fede nel Dio dell'alleanza che è specifica di Israele, di «alleanza» si parla molto poco nella sapienza; ma un'idea religiosa universale: la fede nel Dio della creazione e dell'ordine in essa esistente.
La letteratura sapienziale è così convinta di questa fede e così compenetrata da essa, da sostenere che non è difficile rinvenire direttive morali nella stessa realtà mondana.
In fondo si tratta d'indagare in un mondo a cui Dio ha dato un ordine così perfetto da potervi trovare facilmente la sua volontà.
Ne consegue che l'uomo è invitato a diventare attivo nella ricerca delle conoscenze morali in un realtà creta da Dio stesso. Però il discernimento deve essere fatto in riferimento a Dio. La sapienza, infatti, è considerata dipendente dal timore di Jahvé ed è vista, almeno negli scritti più recenti, come un suo dono.
Dietro all'apparente profanità della morale della letteratura sapienziale c'è una fede forte ed esplicita. La robustezza di questa fede ha permesso ai sapienti di rendere più comprensibile la profanità.

3. Queste caratteristiche hanno reso e rendono sempre attuale il messaggio morale della letteratura sapienziale.
Essa offre, più della morale della Torah e di quella dei profeti, i parametri più adeguati per affrontare e risolvere problemi esistenziali di ogni tempo, perché è chiaramente più vicino a tutti come mentalità.
Si è in molti, infatti, ad essere convinti, come sostiene la sapienza, che la volontà di Dio va cercata nell'incontro con la realtà e nella riflessione sui problemi e sulle situazioni, più che con esoteriche elucubrazioni.
La morale della sapienza, benché così diversa dalle altre due forme, è stata considerata in ogni tempo come guida, incoraggiamento e rafforzamento della ricerca morale personale.
La coesistenza in essa delle altre due forme sta ad indicare che la ricerca delle direttive morali richiede una pluralità di impostazioni, perché ogni prospettiva e mentalità ha i suoi limiti e ha bisogno di essere completata da altre concezioni.

Nessun commento:

Posta un commento