sabato 26 dicembre 2009

FONDAMENTI STORICI DELLA MORALE: La morale patristica (prima parte)

1. Introduzione

Dopo aver studiato il fondamento biblico è bene ora soffermarci sui fondamenti storici della morale. Vogliamo, cioè tracciare le linee fondamentali della storia della morale.
La storia della teologia morale è una disciplina relativamente giovane. E’ nata dopo la seconda guerra mondiale.
Lo spazio logico della nuova disciplina sgorga da una duplice consapevolezza:
- L’essenziale storicità dell’uomo, che costituisce uno dei parametri fondamentali dell’auto-comprensione dell’uomo odierno. Questo discorso ha coinvolto necessariamente anche il discorso teologico. L’incontro fra coscienza storica e discorso teologico ha costretto la teologia, non tanto a rivedere le sue posizioni su alcuni punti marginali, ma a porsi il problema della sua identità epistemologica. Anche la storia della teologia morale deve fare i conti con la cosiddetta "svolta antropologica".
- La seconda consapevolezza è data dal faticoso cammino della identificazione del suo statuto epistemologico. Visto che la teologia morale è la teoria critica della prassi cristiana, cioè ha il compito di svolgere una adeguata analisi ermeneutica, cercando di scoprire il significato ultimo della prassi cristiana in obbedienza al kerigma, ne segue che deve verificare le radici storiche o la genesi della vita cristiana.
La ricerca storica ha origine nel momento stesso in cui il teologo morale interpreta il suo lavoro come servizio alla comunità cristiana, per aiutarla a fare un sereno discernimento sulla sua eventuale coerenza o incoerenza al kerigma apostolico.
«La conoscenza della storia ci apre la strada di un sano relativismo, ma è al contrario un mezzo per essere e considerarsi con maggiore verità e, vedendo la relatività di quanto è effettivamente relativo, per conferire la qualità di assoluto solo a ciò che lo è veramente. Grazie alla storia, percepiamo l’esatta proporzione delle cose, evitiamo di considerare "tradizione" quello che è nato l’altro ieri e che nel corso del tempo è cambiato più di una volta»[1].

2. Preliminari

La scansione storica che adotto in questo beve trattato di storia della teologia morale è quella consueta:
- Morale dei padri,
- Morale dei teologi medioevali,
- Morale casitica
- Morale del neotomismo
- Morale dopo il Vaticano secondo.

3. Periodo patristico

Iniziando a parlare dell’origine della storia della teologia morale, è necessario soffermarci brevemente sulla situazione culturale delle origini cristiane. Essa è caratterizzata dalla presenza di numerose e varie correnti filosofiche. Correnti che è necessario conoscere se si vuole comprendere al meglio la riflessione che all’intero di esse i padri hanno sviluppato.
Dette correnti filosofiche avevano assunto un significato prevalentemente morale e religioso. La prima generazione di cristiani elaborerà la prima originale moralità proprio in questo contesto.
Si può costatare che per i primi due secoli dell’era cristiana non esiste in interesse di carattere teorico le tematiche morali e la produzione letteraria da interessi pratici, parenetici e pastorali.
L’elaborazione delle esortazioni facevano ricorso a categorie concettuali usate dalla contemporanea riflessione filosofica popolare.
Questo mutuare dalla filosofia popolare è favorita dall’obiettiva convergenza degli intenti pedagogici e protrettici e della filosofia popolare che della nuova religione.
E’ necessario, inoltre, dire che l’interesse della ricerca circa i temi di morale è strettamente legata a motivi apologetici, la necessità per Padri e i primi scrittori ecclesiastici di dimostrare la continuità con l’insegnamento biblico.
C’è però anche chi sostiene che la prima generazione cristiana è una pedissequa ripetitrice dei luoghi comuni della filosofia popolare ellenistica. Ci si serviva in modo particolare della filosofia stoica.
La ricerca storica, poi, di questo periodo è un po’ carente:
- Mancano tentativi di sintesi sufficientemente elaborati e informati;
- Abbondano, però, studi di carattere monografici;
- Gli studi di carattere sintetico hanno come oggetto lo sviluppo delle tematiche presenti nei vari padri.

Il problema principale della storiografia degli inizi della chiesa è il problema dell’ellenizzazione del cristianesimo. Era inevitabile che la religione di Cristo si confrontasse con la cultura greca, che aveva influenzato l’intero mondo allora conosciuto.
Mentre da una parte si rifiuta categoricamente le coordinate religiose della cultura greca, dall’altra si è propensi ad utilizzare le sue categorie filosofiche e culturali.
La questione della dipendenza del pensiero cristiano dalla cultura ellenistica non riguarda la legittimità del processo, ma le forme storiche in cui si è realizzato.
Più complessa è la questione del rapporto tra forme letterarie e forme di esperienza di vita. Si possono avanzare due costatazioni:
- Da una parte si costata una dipendenza del pensiero e del linguaggio cristiani dal pensiero e dal linguaggio ellenistici;
- Dall’altra le difficoltà di sviluppo di un interesse di carattere teorico per la morale.
E’ stato proprio l’accordo del cristianesimo nascente con la morale ellenistica che ha fatto ritenere non urgente una riflessione teorica su temi di morale. Invece si è sentito urgente una riflessione adeguata su temi cristologici e dogmatici.
Questa puntualizzazione è importante per lo sviluppo successivo della teologia, in quanto conserva a lungo le caratteristiche della sua origine dommatica, rimane cioè ancorata ai contenuti della fede piuttosto che alla morale. Si può condividere la tesi che la teologia all’inizio non era teologia morale e che non aveva voglia di divenirlo.

4. Morale cristiana e filosofia pagana

E’ necessario subito notare che il facile accordo con la morale proposta dalla filosofia ellenistica, ha ritardato la possibilità di una proposta morale specifica della prima cristianità.
Vi sono tuttavia alcune tematiche morali nel confronto apologetico e polemico con la filosofia pagana. Gli apologisti sostenevano che: anche se gli ideali di vita proposti dai cristiani e dai filosofi pagani erano gli stessi, si notavano due sostanziali differenze:
- I cristiani non propongono solo a parole gli ideali di vita, ma li praticano,
- Le cose che i pagani raccomandano in modo inefficace e confuso, i cristiani lo propongono con argomenti persuasivi e fondati.
Dalla prima differenza possiamo dedurre: la letteratura apologetica ha un tratto marcatamente pragmatico nell’approccio ai temi morali. L’insistenza, poi, sulle questioni pratiche fa ritenere le sottili questioni teoriche sofisticate questioni retoriche. Del tutto nuove sono le tematiche del martirio e della verginità.
La seconda differenza porta a qualche novità nell’elaborazione. Gli argomenti per rendere più urgente l’imperativo morale della pratica delle virtù sono:
- Argomento della rivelazione,
- Argomento della interiorità
- Argomento escatologico,
- Argomento della testimonianza.
Si nota inoltre che accanto ad alcune originalità vi sono diffuse dipendenze della riflessione cristiana dalla morale filosofico-popolare ellenistica. Una maggiore predisposizione c’è senz’altro nei confronti della riflessione stoica.
La ricezione delle categorie stoiche fu per il cristianesimo più immediata perché erano quasi del tutto attinenti la prassi morale. In questo modo gli ideali morali non dovevano necessariamente essere ricondotti a prospettive ontologiche o religiose. Quello stoico è un pensiero eclettico giunto agli autori cristiani da florilegi o raccolte di detti.
La scarsa compattezza dottrinale, poi, rendeva la sua ricezione più agevole e meno gravida di risvolti dottrinali.
Gli stoici consideravano il mondo fondamentalmente buono a guisa di una grande città, dimora degli uomini essenzialmente uguali.
Le categorie fondamentali della morale stoica sono:
- La vita retta e autonoma,
- La vita coerente.
La coerenza è richiesta sia con se stessi che nei riguardi del logos, inteso come legge della natura o della ragione. L’uomo deve vivere secondo natura o ragione e deve lottare contro le passioni per raggiungere l’apatia.
Il pensiero cristiano ribadisce la lotta contro le passioni, ma non adotta il concetto di apatia. Dal pensiero stoico viene mantenuta la centralità della legge di natura o di ragione con qualche piccola differenza.
L’altra grande corrente filosofica, che ha influito sul cristianesimo, è la tradizione platonica. In questo caso, però, la considerazione morale non può essere separata dall’orizzonte ontologico, antropologico e religioso.
L’insegnamento della tradizione platonica più utilizzato dal cristianesimo è il primato della "theoria" sulla prassi, destinato a diventare nel cristianesimo primato della vita contemplativa.
In questa visione il momento pratico della vita viene ricondotto al momento ascetico, preliminare all’esercizio delle virtù. La vita se è esercizio virtuoso.
Tuttavia il primato della teoria sulla pratica, rischia di far passare in secondo piano il comandamento della carità e in subordine lo steso agire rispetto al conoscere o la disposizione pratica rispetto alla conoscenza della verità (rischio gnostico).

1. Morale cristiana ed ebraismo

La rapida assimilazione delle istanze morali dell’ellenismo da parte del cristianesimo ha condizionato il rapporto tra cristianesimo e ebraismo. Questo può essere ricondotto al solo problema dell’interpretazione delle Scritture.
Gli ebrei consideravano importante il senso allegorico delle Scritture, i cristiani consideravano importante anche il senso letterale.
Un altro problema era la differenza da attribuire all’Antico Testamento rispetto al Nuovo.

2. I Padri apostolici: preliminari

I Padri apostolici sono così chiamati perché nei loro scritti, composti tra la fine del I° e la prima metà del II°, si percepisce un fedele riflesso della predicazione apostolica. Di questa tramandano anche la prima riflessione sulla moralità cristiana, senza pretesa di esaustività.
Si tratta ordinariamente di scritti occasionali, la maggioranza lettere, senza alcun intento sistematico. Avvenendo, poi, la trasmissione ordinaria attraverso la predicazione orale, la documentazione scritta è assai scarsa.
Pur non essendo i Padri apostolici dei moralisti sistematici, tuttavia elaborano una certa riflessione morale. Tutti gli scritti appartengono al genere parenetico e catechetico, per questo contengono specifiche riflessioni morali.
Appartengono ai Padri apostolici i seguenti scritti:
- Le lettere di Ignazio di Antiochia,
- La lettera ai Filippesi di Policarpo di Smirne,
- La lettera ai Corinzi di Clemente romano,
- Il martirio di Policarpo,
- L’omelia dell’Pseudo Clemente,
- La Didaché
- La lettera dello Pseudo Barnaba
- Il Pastore di Erma.
Questi scritti traggono i loro insegnamenti dalla Sacra Scrittura. Inoltre, fatta eccezione per le Lettere di Ignazio, si ispirano anche alla tradizione religiosa e culturale del giudaismo, in particolare all’essenismo, desiderando un ritorno ad esso.
Ciò sta a dimostrare la forte difficoltà a svincolarsi dal giudaismo e debole influsso dell’ellenismo. Si può notare che la riflessione morale cerca schemi e categorie utili alla predicazione nel mondi giudaico.
Detto che negli scritti apostolici non c’è una dottrina morale uniforme e sistematica, gli insegnamenti comuni e costanti sono inviti:
- alla pratica della virtù,
- a seguire la via del bene,
- a convertirsi,
- a entrare nel regno di Dio, nuovo alleanza.
Si rifiuta il legalismo formalistico tipico del giudaismo. Si pone l’accento sul nesso tra fede e morale, sulla interiorità di una religione autentica. Manca una qualsiasi analisi della natura umana. La morale è di tipo teocentrico e cristocentrico, consistente nel discernere la volontà di Dio.
I Padri apostolici prediligono schemi mutuati dal giudaismo, come la trilogia: digiuno, preghiera e elemosina, o la via del bene e del male. La Didaché considera il tema delle due vie sotto l’aspetto retributivo, altri scritti invece alla luce di una metafisica dualista, infatti il dualismo morale è connaturale allo spirito umano.
Già nella Genesi l’albero del bene e del male è associato alla contrapposizione vita-morte, bene-male. Queste categorie esprimono nella Bibbia il dualismo morale ed escatologico. Nel NT si preferiscono i temi: luce-tenebre, vita-morte e lo schema delle due vie.
Nella prima letteratura cristiana le due vie indicano l’inizio della vita cristiana con la decisione di rinunciare a Satana e decidersi per Cristo. La scelta iniziale impegna il cristiano a fondare la propria vita su orientamenti precisi. La fedeltà ad essi costituisce il criterio di appartenenza ad una via menché ad un'altra. Il tema delle due vie è l’espressione di due diversi modi di vivere, di due cammini diversi: la fede e l’empietà.
All’interno, poi, di questo contesto vengono elaborati alcuni temi morali desunti dalla Bibbia e dal giudaismo: il decalogo, il discorso della montagna, le beatitudini, la legge della carità, la regola d’oro.
I Padri apostolici mostrano interesse per i temi della morale affrontando problemi diversi non solo di ordine personale, ma anche coniugale e sociale. E’ da notare, poi, che l’insegnamento morale è strettamente collegato con l’esperienza liturgica.
La prima generazione cristiana è consapevole che l’originalità della morale cristiana non è nei contenuti, ma nei fondamenti. E’ il kerigma e non un’astratta concezione della natura, che veicola la volontà di Dio.
Credere in Cristo vuol dire cambiare vita, convertirsi. Ne segue che l’insegnamento morale è inscindibile dall’annuncio.
Oltre alle Lettere di Clemente, Ignazio e Policarpo, prenderemo in esame anche la seconda Lettera di Clemente, che è un’antica omelia morale; la Didaché, in cui la morale viene presentata in forma semplice e tratta direttamente dalla Bibbia; la lettera dello Pseudo Barnaba, esempio di reazione contro il legalismo e il ritualismo giudaico; il Pastore di Erma, in cui è forte la tendenza ascetica.
Farò, poi, riferimento anche a due scritti che ufficialmente non fanno parte dei Padri apostolici: le Odi di Salomone, esempio di gnosi giudeo-cristiano, e il Vangelo di Tommaso, esempio di morale encratista (predicava la continenza e la moderazione) in ambiente giudeo-cristiano.

3. Lettere di Vescovi

Clemente di Roma (papa dal 92 al 99)
Clemente fu il terzo successore di Pietro. E’ ritenuto essere l’autore di una Lettera ai Corinzi citata da molti padri della chiesa. Può essere datata intorno al 96, perché si fa riferimento a «calamità e sciagure» abbattutesi sulla comunità di Roma, chiaro riferimento alla persecuzione di Domiziano (m. 98). La lettera è motivata dalla deposizione di alcuni presbitero dalla comunità di Corinto senza motivazione. Essa intende portare la pace. Si tratta di un documento fondamentale per dimostrare il primato di Roma sulle altre comunità.
L’AT viene definito "unico codice conosciuto", la norma «gloriosa e veneranda della nostra vocazione». Scritto di carattere parenetico sembra una raccolta di testi scritturistici. Ciò fa supporre che Clemente fosse di origine ebraica, con una buona preparazione letteraria e filosofica.
La lettera, divisa in due Parti (cc1-38, 39-58), contiene indicazioni e ordini destinate a sedare le discordie della comunità. L’ultima parte contiene una lunga preghiera. Dopo aver elencato le virtù cristiane: carità, penitenza, obbedienza, fede, compassione, ospitalità, umiltà, pace e concordia, espone i motivi per praticare dette virtù: l’esempio di Cristo e dei santi, l’ordine e l’armonia ch devono regnare nel mondo, le promesse escatologiche, le benedizioni di Dio in Cristo.
La lettera propone una vita virtuosa secondo la sapienza cristiana. Ne individua le motivazioni: nel timore di Dio, nell’obbedienza alla sua volontà e nel suo servizio. Cristo e i santi vengono colti come modelli di umiltà. Le condizioni generali della vita virtuosa sono: fede e opere, lotta contro il peccato, pratica delle virtù fondamentali, fede, speranza e carità, le virtù sociali. Come si può costatare la lettera è una specie di trattati delle virtù pur non nominando mai la parola virtù.
Presenta la vita morale come una lotta dell’uomo contro se stesso e invita a rigettare i vizi dell’invidia e della gelosia. La morale della lettera consiste nell’obbedienza alla volontà e ai comandamenti di Dio. E’ una morale teonoma, ma anche cristonoma.
Insieme a questa lettera è conservato uno scritto che porta il titolo seconda Lettera ai Corinzi, ma che è in realtà una omelia collocabile tra il 120 1 il 150. E’ ricca di citazioni di parole di Gesù. L’idea guida dell’omelia è: la salvezza è un dono di Dio, cui va risposto con la penitenza intesa come obbedienza ai comandamenti consistenti nella castità e nella elemosina. Si presenta la vita cristiana come una lotta (agon) da cui agonismo. Si tratta di un agonismo spirituale, un esercizio continuo della virtù.

1. Ignazio di Antiochia (75-120)

Ignazio fu il terzo vescovo di Antiochia e martire a Roma sotto l’imperatore Traiano (53-117). Durante il viaggio verso Roma scrisse sette lettere: ad Efeso, Magnesia, Tralle, Roma, Filadelfia, Smirne e a Policarpo.
Questo epistolario costituisce uno dei più importanti documenti del cristianesimo antico, soprattutto per la dottrina del primato della Chiesa di Roma, e per gli inviti a guardarsi dalle correnti giudaizzanti e dal docetismo, eresia che nega la realtà della carne di Cristo e afferma che Gesù a sofferto solo in apparenza.
La mistica di Ignazio esprime i tratti fondamentali dell’esperienza cristiana. E’ la mistica di un vescovo che nutre un ardente aspirazione personale al martirio per poter diventare simile a Cristo . Ha un forte amore verso il gregge a lui affidato.
Ignazio, convinto che il cristianesimo ha stabilito un nuovo ordine, un nuovo modo di vivere e non è più possibile tornate all’antico patto, presenta la vita cristiana come un’unione con Cristo e invita a incorporarsi sempre più al suo mistico corpo, a impegnarsi a seguire Cristo con una disponibilità incondizionata anche nella sofferenza, fino al martirio. E’ la grazia la sorgente unica dell’imperativo morale.
Essere cristiani significa seguire Cristo nell’amore, nella sofferenza, nell’incondizionata prontezza a morire per lui. Centro e sorgente della vita cristiana è l’altare, l’eucarestia.

2. Policarpo di Smirne (70-155)

Fu discepolo egli apostoli, in particolare di Giovanni, da loro fu eletto vescovo di Smirne. Poco prima del martirio, compì un viaggio a Roma per discutere con papa Aniceto (155-166) la data della pasqua. Non si giunse ad un accordo.
Secondo Ireneo (m. 175) scrisse molte lettere pastorali, ma a noi ne è pervenuta una sola, indirizzata alla chiesa di Filippi. La lettera è una fonte per conoscere le costanti della morale e della predicazione antica.
Dopo una esortazione a rimanere nella verità e nella fede tenendo lontano l’avarizia, primo di tutti i mali, riporta un codice domestico, ricorda i doveri delle mogli, delle vedove, dei diaconi, dei giovani, dei presbiteri. Si esorta al timore di Dio e a chiedere perdono, a restare attaccati alla tradizione e a Cristo e a perseverare nella pazienza.
La lettera richiama al dovere dell’imitazione di Cristo, a conformarsi a Lui, alle sue virtù, al suo comportamento, camminando secondo la verità del Signore. Per Policarpo Cristo è soprattutto modello di pazienza.

3. La Didaché (130-150)

E’ uno scritto anonimo. Il testo intero fu scoperto nel 1873. Ha come sottotitolo: Dottrina dei dodici apostoli. Lo scritto, in sedici capitoli, è indirizzato da un giudeo cristiano ad una comunità di ebrei convertiti. E’ ampiamente utilizzato l’AT con citazioni espliciti e con semplici richiami. Par il NT sono molto citati Mc e Mt.
L’opera presenta il tema classico delle due vie e vuole offrire una serie di precetti morali, in particolare prescrizioni liturgiche (battesimo, digiuno, preghiera, eucarestia: cc. 7-9), informazioni sulla comunità cristiana (cc. 11-15), la parusia (c. 16).
Per poter camminare sulla via della vita è necessario osservare: il comandamento dell’amore, i doveri personali, i doveri sociali e confessare i peccati. Praticare l’amore di Dio e del prossimo, praticare la regola d’oro. Inoltre: non uccidere, non commettere adulterio, non corrompere i fanciulli, non fornicare, non rubare, non praticherai la magia, non abortirai, non ucciderai i bambini appena nati.
Viene fatto un elenco di vizi molto dettagliato. La conclusione à di non lasciarsi mai distogliere dalla retta via. Segue una serie di regole sull’ospitalità, la correzione fraterna.
La morale è assai chiara, ha leggi precise e non è lasciata all’improvvisazione. Si la netta distinzione tra precetti, che si impongono a tutti, e consigli che sono la condizione della perfezione.
4. La lettera dello pseudo Barnaba (140 ca)

E’ uno scritto anonimo in forma di lettera, diviso in ventuno capitoli, in lingua greca. E’ ricchissimo di citazioni bibliche. Con questo scritto l’autore intende comunicare ai fedeli quello che a sua volta ha ricevuto: la conoscenza perfetta.
La prima parte ha carattere polemico contro il giudaismo: l’antico patto è stato abolito ne è nato uno nuovo, la legge data a Mosè è passata attraverso la passione di Cristo ai cristiani, nuovo popolo dell’eredità.
La seconda parte descrive le due vie: quella della luce e quella delle tenebre e l’escatologia.

5. Il Pastore di Erma (150 ca)

L’opera scritta in lingua greca probabilmente in tempi successivi e a più mani a partire dalla fine del I° secolo. Erma presenta se steso come l’autore e il pastore è l’angelo che lo guida nella vita. Fa parte del genere apocalittico: viene annunciata la seconda penitenza offerta ai cristiani dopo il battesimo.
Lo scritto è suddiviso in cinque visioni, dodici precetti e dieci similitudini. La conversione deve essere l’orientamento decisivo e continuo di tutta la vita.
L’apporto alla riflessione morale del Pastore si può sintetizzare nei seguenti elementi: la valorizzazione della vocazione alla santità morale, l’arricchimento del catalogo delle virtù e dei vizi, l’affinamento della coscienza, il superamento del legalismo giudaico.
L’autore presenta la comunità cristiana della prima metà del sec. II, con le sue debolezze e i suoi meriti, annunciando l’efficacia universale della penitenza cristiana.

6. Gli Apologisti: introduzione

Gli apologisti sono scrittori del II° secolo che, confrontando la tradizione cristiana con la cultura del tempo, cercano di difendere la nuova religione dagli attacchi esterni. Le apologie sono scritti con i quali gli autori cristiani difendono la verità della fede dagli attacchi ostili provenienti da giudei o pagani.
La caratteristica fondamentale di detti scrittori è il confronto che essi stabiliscono tra la morale cristiana e quella pagana. Per loro la verità del cristianesimo è fondata sulla elevatezza della sua dottrina morale e sulla santità della vita dei cristiani.
Il diffondersi del cristianesimo produce nuovi problemi pratici tra questi: atteggiamento verso gli idoli, l’esercizio di alcune professioni, la partecipazione a spettacoli teatrali e circensi, la moda, il servizio militare.
Questi scrittori assumono spesso atteggiamenti rigoristi: si condanna radicalmente il mondo pagano e le sue istituzioni.
Gli apologisti, trovandosi a difendere il cristianesimo, gettano le fondamenta della scienza teologica. Per quanto attiene la riflessione morale, essi:
- in positivo esaltano lo stile di vita cristiano, vita seria, austera, onesta casta, vantaggiosa per lo Stato,per la società e per la civilizzazione in generale;
- in negativo, descrivono le immoralità del paganesimo.
In queste lezioni prenderemo in esame solo Giustino, la Lettera a Diogneto e Ireneo di Lione. Non parleremo degli apologisti greci.

1. San Giustino, martire (100-165)

Nacque a Sichen (Palestina) e morì a Roma martire. Era ebreo, ma ebbe una educazione greca. Fu discepolo della scuola stoica, della peripatetica e della pitagorica. Solo nel platonismo però si convinse di trovare la via giusta. A 30 anni circa si convertì al cristianesimo, ma continuò a studiare filosofia, aprendo una sua scuola a Roma con il proposito di difendere la dottrina cristiana. Fu ucciso per decapitazione.
Scrisse, secondo Eusebio, otto apologie, a noi ne sono pervenute tre sicuramente autentiche, scritte nel 160. Due Apologie e il Dialogo.
Il Dialogo, in 142 capitoli, mostra il metodo e gli argomenti usati per confutare gli ebrei. L’AT e una preparazione del NT. I profeti sono veri pedagoghi della verità. Le due Apologie, indirizzate all’imperatore Antonino Pio, difendono il cristianesimo contro l’impero romano.
Nella prima Apologia sono messi in campo tre serie di argomenti difensivi che sono:
- motivi discolpanti contro i crimini che si attribuivano loro: ateismo, immoralità, rifiuto del culto pagano;
- mettendo a confronto le due religioni si dimostra l’assoluta superiorità del cristianesimo;
- per dimostrare la legittimità delle pratiche cristiane fa la presentazione dell’iniziazione cristiana e dell’eucarestia.
La seconda Apologia prende lo spunto dalla condanna a morte di tre cristiani solo per essere seguaci di Cristo, spiega perché essi muoiono volentieri e dimostra che la dottrina morale dei cristiani è più elevata di quella degli stoici. Sviluppa la teoria dei semina verbi. Si chiede agli imperatori di essere oggettivi nel giudicare i cristiani.
Gli scritti di Giustino non sono originali. Ciò che può interessare è la sua antropologia, sulla partecipazione della ragione umana al Logos presente nella natura e nel quale è adombrato Gesù Cristo stesso.
Egli sostiene che è importante che si faccia una alleanza tra cristiani e filosofi per combattere l’idolatria e la mitologia; per difendere l’interiorità della morale cristiana e la sua fondazione escatologica.

2. La lettera a Diogneto (200)

Questo scritto spesso viene messo tra i padri apostolici. Si tratta senz’altro di uni scritto apologetico. E’ scritto in forma di lettera ed è inviata al Diogneto, un personaggio importante del paganesimo. E’ ignoto l’autore, il luogo ella composizione e la data esatta in cui è stata scritta.
Lo scritto si compone di:
- un’apologia contro i pagani e gli ebrei;
- una descrizione del ruolo dei cristiani nel mondo;
- una catechesi sommaria del cristianesimo
- una esortazione finale
E’ discussa l’antichità degli ultimi due capitoli.
Per quanto attiene la riflessione morale hanno particolare rilievo le seguenti affermazioni: i cristiani vivono come gli altri uomini, tuttavia nella società svolgono un ruolo speciale, sono come l’anima del corpo: specificità della morale cristiana; tutto è stato creato per l’uomo, centro e apice di quanto esiste: antropocentrismo morale; la carità è la sintesi della vita morale del cristiano.

3. Ireneo di Lione (130-203)

Greco di nascita, cresciuto in una famiglia già cristiana, ricevette alla scuola di Policarpo vescovo di Smirne, di Papia, di Melitone di Sardi ed altri, una buona formazione, religiosa, filosofica e teologica. Fu vescovo della città di Lugdunum (attuale Lione) dal 177, in seguito alla morte, per martirio sotto Marco Aurelio, del primo vescovo della città San Potino.
Secondo la tradizione della Chiesa fu martire a sua volta, anche se scarse sono le notizie storiche sulla sua vita e morte. Venne sepolto nella chiesa di San Giovanni, che più tardi venne chiamata di Sant'Ireneo. La sua tomba e i suoi resti vennero distrutti nel 1562 dagli Ugonotti durante le guerre di religione.
Il suo pensiero e le sue opere furono direttamente influenzati da Policarpo, che fu a suo tempo discepolo diretto di Giovanni Evangelista. Essi sono una testimonianza della tradizione apostolica, a quei tempi impegnata contro il proliferare di varie eresie, in particolare lo gnosticismo di cui Ireneo fu un forte oppositore. Delle sue opere ci permangono: Adversus haereses, che tenta di confutare le principali espressioni dello gnosticismo, e Demonstratio apostolicae praedicationis, sintetica e precisa esposizione della dottrina cattolica.
Uno dei suoi discepoli più noti è Sant’Ippolito romano.
Pensiero

Ireneo fu il primo teologo cristiano a tentare di elaborare una sintesi globale del cristianesimo.
All'interno di un periodo storico marcato da due eventi culturali di grande spessore:
- l'insorgere dello gnosticismo in ambito cristiano, la prima eresia in possesso di un buon impianto dottrinale che affascinava molti cristiani colti;
- il diffondersi nel mondo pagano del neoplatonismo, filosofia di vasto respiro, che presentava molte affinità con il cristianesimo.
Ireneo con la sua opera tentò di dare una risposta volta ad evidenziare i presunti errori contenuti nello gnosticismo, mentre nei confronti del neoplatonismo si aprì a un dialogo e fu disposto ad accogliere alcuni principi generali di questa filosofia.
Fu il primo teologo cristiano ad utilizzare il principio della successione apostolica, per confutare i suoi oppositori. Proprio nell'Adversus Ireneo scrive:
- La tradizione degli Apostoli manifesta in tutto quanto il mondo, si mostra in ogni Chiesa a tutti coloro che vogliono vedere la verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli Apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi… (Gli Apostoli) vollero infatti che fossero assolutamente perfetti e irreprensibili in tutto coloro che lasciavano come successori, trasmettendo loro la propria missione di insegnamento. Se essi avessero capito correttamente, ne avrebbero ricavato grande profitto; se invece fossero falliti, ne avrebbero ricavato un danno grandissimo (Adversus haereses, III, 3,1: PG 7,848).
Ireneo indica pertanto la rete della successione apostolica come garanzia del perseverare nella parola del Signore e si concentra poi su quella Chiesa “somma ed antichissima ed a tutti nota” che è stata “fondata e costituita in Roma dai gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo”, dando rilievo alla Tradizione della fede, che in essa giunge fino a noi dagli Apostoli mediante le successioni dei vescovi. In tal modo, per Ireneo e per la Chiesa universale, la successione episcopale della Chiesa di Roma diviene il segno, il criterio e la garanzia della trasmissione ininterrotta della fede apostolica:
- «A questa Chiesa, per la sua peculiare principalità (propter potiorem principalitatem), è necessario che convenga ogni Chiesa, cioè i fedeli dovunque sparsi, poiché in essa la tradizione degli Apostoli è stata sempre conservata...» (Adversus haereses, III, 3, 2: PG 7,848).
La successione apostolica - verificata sulla base della comunione con quella della Chiesa di Roma - è dunque il criterio della permanenza delle singole Chiese nella Tradizione della comune fede apostolica, che attraverso questo canale è potuta giungere fino a noi dalle origini:
- «Con questo ordine e con questa successione è giunta fino a noi la tradizione che è nella Chiesa a partire dagli Apostoli e la predicazione della verità. E questa è la prova più completa che una e medesima è la fede vivificante degli Apostoli, che è stata conservata e trasmessa nella verità» (ib., III, 3, 3: PG 7,851).

[1] CONGAR Y., in Concilium 7(1970), 107.

lunedì 14 dicembre 2009

CAPITOLO PRIMO Morale dell'Antico Testamento

Iniziamo lo studio della morale biblica partendo dagli scritti dell'Antico Testamento, data l'importanza che essi hanno avuto e hanno nella storia della teologia.
La morale veterotestamentaria ha goduto sempre di molta considerazione nella riflessione morale cristiana.
Tra gli elementi passati in blocco nella tradizione morale cristiana abbiamo soprattutto: il decalogo e il comandamento dell'amore.
Come punto di partenza per la classificazione delle interpretazioni e concezioni morali dell'Antico Testamento, accettiamo l'ormai classica suddivisione dei suoi scritti in: libri storici, profetici e poetico-sapienziali.
Per cui suddivideremo lo studio del messaggio morale dell'Antico Testamento in tre parti:
- la morale della legge,
- la morale dei profeti,
- la morale della sapienza.

Questi tre modelli di morale non sono separati, né temporalmente né dal punto di vista del contenuto. Essi sono rinvenibili contemporaneamente nelle varie epoche e presentano molteplici connessioni, collegamenti e comunanze.

1. La morale della legge

Questo elemento della morale veterotestamentaria si presenta composta di vari strati e sviluppi. E' la stessa Sacra Scrittura, però, a compiere il tentativo di raggruppare la molteplicità delle disposizioni morali e religiose sotto il concetto di legge, che in ebraico viene denominata Torah.
La Torah ha assunto una tale importanza nella vita religiosa ebraica, tanto che il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia nei quali è contenuta quasi tutta la legislazione ebraica, viene spesso menzionato con il semplice termine di «legge».
Anche il Nuovo Testamento per indicare l'Antico Testamento utilizza il termine «legge» o da solo (Gv 10,34; 15,25; 1Cor 14,21) o unito al termine «profeti» (Mt 7,12; 22,40).

1.1. Il contenuto

La caratteristica fondamentale della legge o Torah consiste nella capacità di mettere insieme codici normativi di vario genere.
Dall'analisi del contenuto, infatti, si evince che l’intero ordinamento della legge è pensato come guida per la totalità della vita. Le sue prescrizioni possono essere suddivise nei seguenti tre gruppi:
- corpo di leggi giuridiche,
- corpo di leggi riguardanti il culto religioso,
- corpo di leggi riguardanti il comportamento morale.

Le prescrizioni prettamente giuridiche si riferiscono all'ambito del diritto penale, civile e processuale. Possono essere reperite nel «libro dell'alleanza» (Es 20‑23) e in ampie parti del Deuteronomio.
Le prescrizioni per il culto religioso si trovano principalmente nel libro del Levitico, ma anche in alcuni capitoli dell'Esodo e dei Numeri. Le norme più importanti costituiscono il cosiddetto «decalogo cultuale» (Es 34,14‑26), il «codice di purità e impurità» (Lv 1‑15) e la «legge di santità» (Lv 17‑25).
Le prescrizioni espressamente morali si trovano sparsi nell'Esodo, nel Levitico e nel Deuteronomio. Si tratta di disposizioni che riguardano il comportamento nei confronti del prossimo (Lv 19,11‑18.32‑37), norme riguardanti i rapporti sessuali (Lv 18,6‑30; 19,20‑22), e infine il decalogo, tramandato in duplice forma (Es 20,2‑17; Dt 5,6‑21).

La suddivisione descritta sopra non sempre è rinvenibile nei libri del Pentateuco o dell'intera Bibbia con questa specificazione. Spesso i diversi elementi sono mescolati tra loro. Prescrizioni cultuali, morali e giuridiche si trovano talvolta nello stesso capitolo e anche nello stesso versetto (cf, ad esempio, Es 22 oppure Lv 19).
Questa apparente confusione non può essere attribuita:
- alla incapacità di differenziazione;
- ad una consapevolezza legislativa non ancora sviluppata.
Non è vero, cioè, che alla mentalità giuridica arcaica non fosse ancora chiaro lo specifico dei singoli ambiti e non fosse ben chiaro lo specifico della morale.
La mescolanza delle varie norme può essere spiegata dal ruolo decisivo che in esse svolge la caratteristica religiosità di Israele.
L'ebreo, soggiogato dalla grandezza e dall'unicità di Dio, comprende tutte le prescrizioni come provenienti da Lui. La volontà di Dio è la fonte unica di tutti i comandi e le leggi. Tentare di separare queste due realtà vuol dire, per l'ebreo, rinnegare la fede in Dio.
E' errato considerare la Torah come un codice di comportamento morale puramente esteriore, solo perché in essa preval­gono norme che esigono o vietano azioni concrete.
Ripetutamente e chiaramente vengono tematizzati anche atteggiamenti interiori, come:
- l'amore per il prossimo (Lv 19,18)
- l'amore per lo straniero (Dt 10,19).
E' fuorviante, inoltre, considerare la Torah come un codice di leggi che si accontenti del minimo morale, perché, accanto a elementi di semplice buon costume, sono proposte esigenze morali molto elevate.
La morale della Torah intende spesso regolare il comportamento dell'ebreo nella vita di relazione, per cui può essere tranquillamente definita una morale sociale.
Le sue tematiche principali possono essere così sintetizzate:
- il fondamentale rispetto della vita umana (sebbene in vari modi limitato);
la pacifica convivenza di famiglie e tribù;
- la salvaguardia dell'istituzione del matrimonio e la perpetuazione della propria stirpe;
- la solidarietà con i parenti e i connazionali;
la difesa del popolo dai pericoli esterni;
- la salvaguardia dei socialmente più deboli: stranieri, schiavi, vedove, orfani e poveri.

1.2. Aspetti caratteristici

L'elemento primario e fondante del messaggio morale della Torah è il suo carattere teologico‑religioso.
La specifica religiosità di Israele presenta le seguenti caratteristiche:
- Israele crede in Jahvé come suo unico Dio,
- vive della convinzione che l'unico Dio è entrato in un particolare rapporto con lui,
- questo rapporto viene capito e interpretato con la categoria di alleanza, che può essere definita come: una comunione personale voluta, in modo permanente da Jahvé con sua libera scelta.
Il messaggio morale contenuto nella Torah viene sempre accolto e vissuto alla luce di questa originale religiosità, cioè:
- dal momento che Jahvé si rivela come l'unico Dio e viene creduto come tale, fa considerare provenienti da lui tutte le prescrizioni morali;
- la fede nell'alleanza fa comprendere le prescrizioni morali come clausole, stabilite da Dio, del patto, rispettando le quali il popolo prende parte attiva ad esso.

La coscienza della specificità di Jahvé, che trascende e permea tutte le cose, fa sì che le esigenze morali non vengano comprese come realtà a sé stanti, lasciate in balia dell'uomo, ma sono interpretate, al pari di tutta la realtà, come direttamente legate a Jahvé.
E' Lui il referente di ogni comportamento morale. Solo Lui comanda e proibisce.
Questa convinzione diventa sempre più radicata con il crescere della fede in Jahvé, Dio dell'alleanza.
Israele è sempre più convinto che colui che si rivela nella storia e nella vita del popolo come il suo salvatore e creatore fa sapere nei suoi comandamenti con quale comportamento il popolo lo può raggiungere e può conservare l'alleanza con lui, incrementando la comunione da lui fondata.

Da questa particolare comprensione teologica emergono quelle caratteristiche della morale della Torah, che la differenziano chiaramente dalla morale dell'ambiente circostante.
Queste caratteristiche sono ancora oggi determinanti per la comprensione cristiana della moralità biblica. Esse si possono così sintetizzare:

1.2.1. La legge morale è un dono di Jahvé

Le prescrizioni morali sono sempre precedute dal dono misericordioso di Jahvé, che consiste nella salvezza e nell'elezione del popolo.
L'osservanza delle clausole dell'alleanza non costituisce il contributo dell'uomo come partner autosufficiente di essa, ma è la risposta all'azione salvifica e liberante di Jahvé, risposta resa possibile dall'azione preveniente di Dio.

1.2.2. La legge morale è sempre di carattere sociale

I comandamenti, come le clausole dell'alleanza, sono sempre rivolte al popolo, con cui Jahvé ha concluso la sua alleanza.
Il primo destinatario delle clausole dell'Alleanza è la comunità di Israele. Questo, però, non significa che esse non si riferiscano anche al singolo.
La morale della Torah non intende raggiungere la perfezione del singolo, ma proteggere la vita comune, il bene della comunità e la salvaguardia dell'esistenza del popolo.

1.2.3. La legge morale giuda sicura nella vita

I comandamenti di Jahvé sono la guida sicura della vita umana, mostrano, cioè, le vie attraverso le quali il popolo può raggiungere la salvezza e conservarla.
La legge è un dono che rende felici e rallegra. Verso di esso l'uomo deve anelare e porsi in atteggiamento di gratitudine (cf, ad esempio, Sal 19 e 119).

1.2.4. La legge morale ha una struttura dialogica

Se tutti i comandamenti e norme risalgono alla volontà misericordiosa di Jahvé, diventa decisivo il compito morale dell'obbedienza ad essi, per cui ogni comportamento assume il carattere di un evento personale.
Il fine dello sforzo morale non è il rispetto di un ordine, ma il rispetto di Jahvé stesso. Ne consegue l’assioma: l'Israelita, chiamato da Dio, creda in lui, lo ringrazi e lo tema, con un'obbedienza incondizionata.
«La nostra giustizia, afferma il Deuteronomio, è osservare e praticare interamente questi comandi davanti al Signore nostro Dio, come ci ha prescritto» (Dt 6,25).

1.2.5. Alla legge morale va sempre obbedito

L’accentuazione dell'obbedienza fa sì che le singole disposizioni passino in second'ordine e possono essere modificabili. Possono, cioè, subire cambiamenti e sviluppi, dal momento che l'elemento essenziale non è la loro oggettività, ma l'obbedienza.
Ne consegue che è possibile adattare le norme alle mutevoli condizioni di vita del popolo, senza con ciò mettere in pericolo il nucleo dell'atteggiamento morale, che è caratterizzato dalla capacità obbedienziale.
In forza di questo principio, spesso viene richiesta l'apertura nei confronti di eventuali nuovi obblighi. Infatti, quando la sovrana volontà di Jahvé viene colta come la vera sorgente delle esigenze morali, è indispensabile un atteggiamento di continua attenzione ad essa e non alla oggettività delle norme.

1.3. Il dato di rivelazione

La morale della Torah non è comprensibile senza la fede in un Dio che si rivela a Israele. Il riferimento alla rivelazione, infatti, è la causa efficiente di ogni comportamento morale.
Diversi comandamenti della Torah presentano affinità con quelli dei popoli vicini. Ciò vale tanto per i «comandamenti condizionali», nei quali cioè le prescrizioni sono formulate casisticamente, quanto per quelli «apodittici», che presentano prescrizioni in forma di discorso diretto.
Per entrambi i generi e per i contenuti ad essi collegati si trovano molti paralleli nel mondo cultuale circostante.
Questa constatazione ci porta a concludere che Israele, nell'ambito della morale, ha avuto molto in comune con gli altri popoli dell'antico Oriente o che addirittura molto ha mutuato da loro.
La rivelazione caratterizza la morale della Torah non sotto l'aspetto formale, quindi, ma sotto l'aspetto sostanziale, e cioè che: l'uomo raggiunto dalla rivelazione di Dio deve guidare il suo comportamento morale a partire da Lui.
La morale veterotestamentaria non solo deriva la sua obbligatorietà da Dio, ma fonda in Lui anche il suo contenuto. La fede in Dio conferma, corregge e trasforma il fedele israelita.
Alla base di questa convinzione c'è una lettura teologica della rivelazione, secondo la quale questa non è comunicazione di cose che non possano essere conosciute in altro modo, ma autocomunicazione di Dio. Dio rivela «se stesso... e il mistero della sua volontà», che è volontà di salvezza e redenzione dell'uomo.
L'essenziale contenuto della Rivelazione è costituito da Dio che si rivela come salvatore, che viene incontro all'uomo in difficoltà morale e sociale. Esso è costitutivo anche del contenuto del comportamento morale dell'uomo.

Dal momento che la rivelazione e la sua recezione hanno una storia e accadono in varie tappe, ne consegue che anche il suo influsso sulle esigenze morali porta i segni della storicità.
Solo gradualmente, infatti, divengono chiare le conseguenze della progressiva autocomunicazione di Dio sul comportamento dell'uomo.
Con questa concezione possono essere spiegate, ad esempio, due delle più gravi debolezze della morale della Torah:
- l'esistenza di una morale sessuale che favorisce il maschio (cf., ad esempio, Dt 22,21 con 22,28s) o la possibilità di scioglimento del matrimonio concessa, secondo Dt 24,1‑4, solo all'uomo;
- l'appellarsi a Dio circa i metodi della conduzione della guerra, fino all'idea che Dio può comandare l'esecuzione dell'«anatema», cioè il totale sterminio di un popolo vinto (cf, ad esempio, Gs 6,17; 10,40; 1Sam 15,3).
Nel primo caso è evidente che il dato di rivelazione non è riuscito ancora ad influire sul dato culturale; nel secondo c'è una comprensione troppo angusta della rivelazione, nella quale si coglie solo l'assoluta potenza e severità di Dio.

2. La morale dei profeti

La tesi, talvolta sostenuta, che la vera morale di Israele sarebbe iniziata con i profeti, si è rivelata alquanto approssimativa.
I profeti si appellano continuamente alla più genuina tradizione di Israele, anche e soprattutto dal punto di vista della morale. Anzi, il loro messaggio non intende apportare novità al già ricco patrimonio morale, ma semplicemente ricordare al popolo la sua antica vocazione e i suoi tradizionali doveri.
Tuttavia contribuiscono a dare nuove accentuazioni alle esigenze morali, sia nel contenuto, sia nella comprensione formale.

2.1. Il contenuto

1. La prima caratteristica, tipica dei profeti, consiste nell'anteporre la morale al culto.
Gli obblighi cultuali non vengono negati, ma viene rifiutato con decisione, talvolta polemica, il tentativo di crearsi un alibi davanti a Jahvé con l'adempimento esatto dei rituali (cf Am 5,21‑25; Is 1,10‑17; Ger 7,21‑23).
Dedurre da ciò un rifiuto indiscriminato del culto da parte dei profeti sarebbe certamente sbagliato. La loro critica non si rivolge contro il culto come tale, ma contro le malformazioni che di fatto esso aveva acquisito nel tempo.
Si era isolato dalla vita quotidiana e veniva compiuto in modo da non avere conseguen­ze sulla sfera morale, oppure si accompagnava a una condotta di vita empia e criminale.
Per i profeti il vero motivo per cui il culto non viene ac­cettato da Jahvé perché: senza la giustizia e la rettitudine, sacrifici, preghiere e in­censi non hanno senso, sono inutili e causano anzi l'ira di Dio.
Il contenuto del messaggio profetico va, perciò, considerato globalmente non come l'esposizione di un tema, ma come l'an­nuncio di un evento: il giudizio divino sul culto.
Questa concezione della critica profetica al culto impedisce di vedere nel messaggio profetico il pericolo di moralismo.
Essi, infatti, non vogliono sostituire il culto con la morale e dar valore solo a quest'ultima. Reclamano semplicemente l'irrinunciabile significato della morale e si scagliano contro un culto totalmente slegato da essa.
Non mettono, tuttavia, in discussione il fatto che la fede in Jahvé possa, per principio, manifestarsi anche nelle azioni cultuali.

2. Un secondo punto chiave, del messaggio morale dei profeti, è la sottolineatura dei doveri sociali e cioè: il sostegno dei poveri, la difesa dei socialmente deboli, il superamento delle fratture in seno al popolo, il rispetto del diritto e l'osservanza della giustizia.
Questi sono i temi che i profeti riprendono continuamente e trattano con incisività ancora maggiore di quanto facesse la predicazione morale della legge.

2.2. Aspetti caratteristici

1. Come prima caratteristica va ricordato il carattere religioso del messaggio morale dei profeti.
Lo sguardo supera sempre il prossimo per raggiungere Jahvé, cosicché, malgrado tutte le sottolineature dei doveri sociali, non viene mai proclamato un semplice programma sociale.
Come già per la morale della Torah, anche per quella dei profeti, Jahvé è considerato l'origine delle prescrizioni.
Questo principio, però, viene perfezionato dall'idea che non solo la volontà di Jahvé, ma anche la sua essenza esigono determinati comportamenti.
Se Jahvé è giusto e misericordioso, anche l'uomo deve esserlo.
Nei profeti, poi, ricorre spesso l'idea che il popolo viene punito da Jahvé in seguito a un comportamento asociale (Mic 2,8; 3,3), ma gratificato se assume un comportamento socialmente corretto.
«Tuo padre forse non ha mangiato e bevuto? Praticava, però, il diritto e la giustizia; perciò ebbe prosperità! Difendeva la causa del povero e del misero e allora andava bene! Non significa questo conoscere me?» (Ger 22,15‑16).

2. Come seconda caratteristica va notata una maggiore interiorizzazione della morale. Questa peculiarità nasce, come per la morale della Torah, dalla particolare religiosità e teologia dei profeti. Il fondamento dei precetti viene, cioè, posto nella natura stessa di Jahvé e non più solo nella sua volontà.
Ne nasce una forte esigenza di aderire di più al significato del precetto e respinto un adempimento puramente formale ed esteriore di esso, perché i precetti vengono dedotti dalla natura di Jahvé, che gli dà maggiore consistenza.

2.3. Il dato di rivelazione

1. Anche per i profeti le esigenze morali sono originati da una esplicita rivelazione di Dio. Le prescrizioni morali sono, infatti, continuamente indicate, dai profeti, come parola di Jahvé, manifestazione della sua diretta volontà.
A un attento esame, però, il quadro si mostra più complesso.
I profeti non formulano nuove esigenze, ma si rifanno a quelle già esistenti.
Essi ordinariamente ricordano tradizioni morali che, anche se accettate nella fede come provenienti da Dio, hanno tuttavia, per il loro contenuto, molti paralleli extrabiblici, per cui difficilmente possono essere considerate rivelate da Dio in senso stretto.
Questo principio vale anche per quelle prescrizioni che appaiono per la prima volta nella predicazione profetica. Nessuna di esse, infatti, supera, per il contenuto, l'orizzonte dell'esperienza e del discernimento umani, così che si possano ritenere direttamente rivelate da Dio.

2. Sembra più prudente ritenere che determinate richieste morali siano rivelate in modo indiretto.
La rivelazione non è la diretta ispiratrice di dette le norme, le quali, tuttavia, non sono in contraddizione con la fede biblica, che, anzi, le rende praticabili.
Il nuovo modo di autocomunicarsi di Dio che i profeti sperimentano nella loro persona: un "Dio personale", vicino all'uomo, che si prende cura di lui e del popolo in modo materno.
Questa esperienza li costringe a riflettere, attentamente e profondamente, sui rapporti interumani e su come questi siano collegati a Dio stesso.
Il modo di essere e di fare di Jahvé li porta a richiedere maggiore perfezione nei doveri sociali, motivandoli con un adeguato atteggiamento interiore.
La rivelazione produce, così, un nuovo modo di vivere le esigenze morali e sprona ad una comprensione più profonda del suo rapporto con la realtà religiosa e teologica.
L'esempio dei profeti mostra che la riflessione sul passato, la volontà di ricordarlo e di restarvi fedeli, non porta a una semplice ripetizione e a una stagnazione, ma ad una vivificazione continua.
La rinuncia a parlare delle «visioni del loro cuore» (Ger 23,16) e la volontà di prescindere da se stessi crea la capacità di recepire il loro annuncio come proveniente direttamente da Dio.

3. La morale sapienziale

Il genere letterario degli scritti che vanno sotto il nome di libri sapienziali e nei quali si trova il modello di morale esso ispirato, si estende in un periodo di tempo di circa un millennio.
Ne consegue che il messaggio morale contenuto in questi testi abbia subito l'influsso sia della morale della legge, che di quella dei profeti.
La morale cosiddetta sapienziale ha, tuttavia, una particolarità talmente inconfondibile, da essere spesso paragonata alla sapienza orientale, più che a quella caratterizzante e decisivo della fede d'Israele.
Ne consegue che è impossibile non ammettere parallelismi con l'ambiente extrabiblico. Talvolta si tratta addirittura di vero plagio.
Nel libro dei Proverbi, ad esempio, (22,17‑23,11) si incontra quasi letteralmente un passo ripreso dal libro sapienziale egiziano di Amen‑Emope (X secolo a.C.).

3.1. Il contenuto

1. Negli scritti sapienziali i temi morali occupano uno spazio ampio, così che, soprattutto in quelli più antichi, si può avere l'impressione che si tratti di vere composizioni morali.
Questi temi sono molto vari e toccano quasi tutti gli ambiti della vita quotidiana. Possono, tuttavia, essere sintetizzati nella seguente esigenza: la vita morale consiste nel condurre bene le situazioni dell'esistenza in tutta la sua ampiezza e ricchezza.
L'accento viene posto soprattutto sulla sfera personale, per cui è difficile rinvenire direttive sui problemi sociali e politici.

2. L'attenzione al singolo conduce ad un caratteristico ampliamento dei problemi morali.
Accanto ad affermazioni sul giusto comportamento nei confronti di Dio e nei confronti del prossimo, si incontrano molte affermazioni che riguardano il comportamento verso se stessi.
Si trovano:
- esortazioni alla diligenza e alla modestia,
- al dominio delle emozioni e in generale alla moderazione,
- non essere gran bevitori,
- frenare la lingua,
- non cedere alla seduzione di una donna straniera e così via.
Saggio è colui che sa formarsi e controllarsi.

3.2. Aspetti caratteristici

1. La caratteristica più appariscente della morale della sapienza è il modo in cui essa viene presentata.
La sua trasmissione avviene, a differenza della legge e dei profeti, non proclamando direttamente prescrizioni o divieti, ma comunicando intuizioni ed esperienze.
Non si tratta di una morale del comando, ma di una morale fatta di consigli e di argomenti razionali. Ci si appella più alla ragione dell'uomo che alla sua volontà.

2. Nella visione sapienziale l'argomentazione razionale è desunta prevalentemente dalle realtà concrete: che cosa si deve fare o non fare emerge dalle azioni stesse e più precisamente dalle loro conseguenze.
Sono gli effetti, inseparabili dalle singole azioni, che mostrano se queste ultime siano raccomandabili o meno. Si ricorre, soprattutto nella sapienza più antica, più all'esperienza quotidiana e al buon senso che alle parole di Jahvé.

3. Un'altra caratteristica della morale della sapienza è di essere ordinata alla riuscita della vita umana, a un'esistenza il più possibile felice e armoniosa.
Vengono raccomandati atteggiamenti e azioni che possono dare buoni risultati e vengono sconsigliati modi di agire che possono produrre esiti negativi.
Questo modo di argomentare, spesso inteso come un'applicazione dello «schema azione‑esito», ha senza dubbio una tinta utilitaristica.
Tuttavia il pensiero sapienziale si distingue chiaramente da ciò che s'intende generalmente con «utilitarismo».

1. Le differenze
- La sapienza non considera isolatamente l'u­tile o il dannoso, ma tutto ciò che l'uomo coglie intimamente e necessariamente connesso con le singole azioni. Il saggio è profondamente convinto che il mondo è così coerente che ad ogni buona azione è collegato anche sempre un utile. Chi si comporta in modo moralmente corretto alla fine ottiene sempre successo.
- Una seconda differenza consiste nel fatto che l'utile e il dannoso dipendono soprattutto da come Jahvé giudica il comportamento umano. Perciò il fare o non fare una cosa dipendono soprattutto dal timore di un suo intervento punitivo. Esempio: «Non spogliare il povero... e non opprimere l'infelice, perché il Signore difenderà la loro causa e rapirà la vita ai loro oppressori» (Pro 22,22s). Tale motivazione è completamente assente dall'utilitarismo classico.
- Come terza differenza, infine, può essere considerato il fatto che, almeno nella sapienza più recente, si sconsiglia di considerare l'utile e il dannoso in modo rettilineo e progressivo e si invita a valutarlo un modo dialettico. Così nel libro del Siracide, del I secolo a.C., si dice: «Si può aver profitto dalle avversità e perdita da un colpo di fortuna» (20,9).

3.4. Il dato di rivelazione

1. La morale della sapienza viene presentata dalla Bibbia stessa come qualcosa che non è oggetto di una speciale rivelazione.
A differenza di quanto avveniva nella Torah e nei profeti, i singoli comandamenti non vengono più considerati come rivelati direttamente da Dio, ma come consigli che l'uomo stesso deve saper rinvenire nelle realtà intramondane.
A prima vista questa morale sembra poco teologica, perché si presenta in una veste del tutto profana.

2. Tuttavia in essa non mancano espliciti riferimenti alla teologia, perché è pienamente inserita in un orizzonte illuminato dalla fede.
Però è un orizzonte di tipo particolare: in esso non è decisiva tanto la fede nel Dio dell'alleanza che è specifica di Israele, di «alleanza» si parla molto poco nella sapienza; ma un'idea religiosa universale: la fede nel Dio della creazione e dell'ordine in essa esistente.
La letteratura sapienziale è così convinta di questa fede e così compenetrata da essa, da sostenere che non è difficile rinvenire direttive morali nella stessa realtà mondana.
In fondo si tratta d'indagare in un mondo a cui Dio ha dato un ordine così perfetto da potervi trovare facilmente la sua volontà.
Ne consegue che l'uomo è invitato a diventare attivo nella ricerca delle conoscenze morali in un realtà creta da Dio stesso. Però il discernimento deve essere fatto in riferimento a Dio. La sapienza, infatti, è considerata dipendente dal timore di Jahvé ed è vista, almeno negli scritti più recenti, come un suo dono.
Dietro all'apparente profanità della morale della letteratura sapienziale c'è una fede forte ed esplicita. La robustezza di questa fede ha permesso ai sapienti di rendere più comprensibile la profanità.

3. Queste caratteristiche hanno reso e rendono sempre attuale il messaggio morale della letteratura sapienziale.
Essa offre, più della morale della Torah e di quella dei profeti, i parametri più adeguati per affrontare e risolvere problemi esistenziali di ogni tempo, perché è chiaramente più vicino a tutti come mentalità.
Si è in molti, infatti, ad essere convinti, come sostiene la sapienza, che la volontà di Dio va cercata nell'incontro con la realtà e nella riflessione sui problemi e sulle situazioni, più che con esoteriche elucubrazioni.
La morale della sapienza, benché così diversa dalle altre due forme, è stata considerata in ogni tempo come guida, incoraggiamento e rafforzamento della ricerca morale personale.
La coesistenza in essa delle altre due forme sta ad indicare che la ricerca delle direttive morali richiede una pluralità di impostazioni, perché ogni prospettiva e mentalità ha i suoi limiti e ha bisogno di essere completata da altre concezioni.

domenica 13 dicembre 2009


INTRODUZIONE GENERALE

1. Aspetti del vissuto morale contemporaneo

Il vissuto morale dell’uomo contemporaneo è caratterizzato dal venir meno di criteri morali condivisi.
L’assenza di valori morali condivisi crea il vuoto di coscienza, questa, cioè, nei momenti decisivi della vita, non funge più da orientamento.
Il vuoto di coscienza si avverte maggiormente quanto le regole del vivere sociale non coincidono più con i valori personali.
La vita sociale viene percepita dal soggetto agente come:
- luogo di conflitto tra istanze morali contrapposte,
- spazio di vita indifferente dal punto di vista morale.
1. Nel primo caso il soggetto agente esperisce il ruolo sociale come un compromesso rispetto alle sue convinzioni morali.
2. Nel secondo caso il conflitto viene superato separando la coscienza soggettiva da quella sociale, sottraendo i comportamenti pubblici dalla rilevanza morale.
In ambedue i casi il soggetto agente, anziché realizzare se stesso, attraverso il lavoro, la professione, l’impegno civile, si sente disgregato in molti comportamenti insignificanti.
In un contesto di doppia morale, privata e pubblica, il soggettivismo morale, tipico del nostro tempo, non è rifiuto o indifferenza dei valori assoluti, ma un modo di affermare la propria personalità in un contesto di complessità.
Il soggettivismo imperante sostiene che il vissuto morale va fondato sui due seguenti criteri guida:
- la scelta personale,
- la coerenza con se stessi.
Con l’espressione «scelta personale» si intende che la decisione assunta non ha altro fondamento che le motivazioni soggettive.
Con «coerenza con se stessi» si intende che tra le scelte e l’azione deve esserci coerenza. E’ necessario, cioè, essere coerenti con le proprie scelte.
Nella concezione morale attuale il vissuto morale si risolve nella soggettività, abdicando ad ogni fondamento universale.
Questa concezione morale è caratterizzata:
- dalla esaltazione della soggettività,
- dalla caduta della responsabilità morale, sociale e personale.
In altre parole: la soggettività porta a ritenere criterio sufficiente di scelte morali, non ciò che è giusto in sé, ma ciò che è conveniente, utile e funzionale al soggetto (utilitarismo).

2. Dalle regole di condotta al significato umano dell’agire

Il vissuto morale odierno non è, però, caratterizzato dal solo soggettivismo: anzi si sente sempre più il bisogno di riferimenti morali assoluti, che diano senso all’agire personale, sociale e al futuro dell’umanità.
Esigenza questa avvertita sia dai cristiani che dai cosiddetti "laici"[1], tanto che da più parti si auspica un "ritorno alla morale".
Questa voglia di morale nel contesto italiano viene definita "questione morale".
Essa è accompagnata da due esigenze:
- maggiore onestà e trasparenza nell’amministrazione pubblica;
- esigenza di distinguere legalmente ciò che è lecito, da ciò che non lo è.
Da questa ricerca scaturisce una forte ambiguità sul significato della questione morale. Vanno segnalate due correnti tra loro in conflitto:
- si sente la necessità di creare nuove norme di comportamento,
- non si sente il bisogno di creare il fondamento della loro obbligatorietà.
Ci si chiede:
- quali sono le ragioni per cui un soggetto dovrebbe osservare determinate norme?
- chi e che cosa rende una norma vincolante?
Risposta:
- un’autorità morale,
- un gruppo di esperti,
- la forza coercitiva dello Stato.
Se a rendere vincolante una norma è la forza coercitiva dello Stato, ne segue che questione morale equivale a questione legale.
Il soggetto si sottomette o obbedisce alla norma, non perché è convinto in coscienza del valore della norma, ma perché c’è un esplicito comando dell’autorità che ha il potere di perseguire penalmente il soggetto.
La prima ambiguità, connessa al modo di porre la questione morale, consiste nel "far coincidere la morale con la norma o legge.
La questione morale ordinariamente fa riferimento ai comportamenti pubblici, luogo di intervento dello Stato. Questi comportamenti hanno come fondamento una convenzione, un accordo tra:
- diverse espressioni culturali,
- parlamentari democraticamente eletti,
- comitati etici.
In questi casi si deve parlare di legalità e non di morale. Oggi si tende a far coincidere la legalità con l’etica pubblica.
La seconda ambiguità, legata alla questione morale, concerne la domanda etica la quale non si esaurisce nella domanda: che cosa mi è permesso fare? Ma va oltre.
Le domande: perché devo fare ciò? Perché non è lecito fare ciò? Chiamano in causa: il soggetto agente e il senso della libertà.
Il soggetto agente è chiamato sempre a motivare la sua libera scelta, dandole un significato, non uno qualunque, ma quello che dà senso alla totalità della sua esperienza umana.
Solo così l’agire dell’uomo è espressione della verità del suo essere.
Esiste, infatti, un intrinseco rapporto tra libertà e verità dell’uomo. La consapevolezza di questo rapporto porta l’agire umano ad uscire dalla convenzionalità per riconoscersi come agire morale, vale a dire come libertà in risposta alla verità.
La ricerca della liceità o dell’illiceità del comportamento pubblico trascura il vero senso del problema morale e cioè:
- il vero senso del vivere,
- la verità piena dell’uomo,
- il fondamento del bene e del male.
La vera questione morale non può limitarsi a stabilire solo l’autenticità della condotta pubblica, anche se ciò è importante per normare la convivenza sociale.
Essa deve definire la questione di senso dell’agire dell’uomo, considerato come realtà personale, sociale e cosmica.
La domanda di senso, poi, delle singole azioni riguarda, soprattutto, la domanda sulla verità totale dell’uomo, ma anche la questione antropologica, cioè il senso vero dell’uomo.

3. Esiste la morale laica?

Se la giusta prospettiva del problema morale è la ricerca della verità dell’uomo, ne segue una legittima domanda: può esistere una morale laica, fondata, cioè, su valori puramente umani?
Problematica molto sentita nel nostro mondo pluralista!
Molti, pur dichiarandosi non credenti, si comportano in modo retto, dimostrando una forte sensibilità nei confronti dei valori morali.
Questi sostengono che una morale solo umana è legittima e autentica.
Un’autentica morale laica deve fondarsi su:
- valori umani,
- fondamentali diritti.
Sua caratteristica è il non porre in modo esplicito la domanda: perché questi valori e questi diritti valgono universalmente?
Essa opta per l’uomo quale fondamento dell’agire morale.
La fede laica nell’uomo garantisce alla morale laica, da un punto di vista teorico e formale, un esplicito riferimento all’insieme dei valori umani, ma è anche il principio della sua debolezza.
Il non riferimento al trascendente e al religioso, quale metro di valutazione dell’agire, diviene di fatto relativismo e arbitrio, e di conseguenza diviene laicismo.
Il laicismo è una ideologia che rifiuta in modo pregiudiziale il fondamento universale e assoluto della morale, per salvaguardare la piena autonomia del soggetto agente.
Le verità del laicismo sono contingenti e provvisorie.
La regola indiscussa è la mutabilità.
L’etica laica è l’etica della situazione fondata sui criteri dell’utilitarismo, del pragmatismo, dell’emotivismo.
Essa, in definitiva, finisce per assimilarsi alla legalità sancita dallo stato democratico, sulla volontà della maggioranza, sull’opinione manipolatrice e imposta dei mass media.
La morale laica, nonostante la voglia di progresso, è fondamentalmente conservatrice e fa riferimento al modello socio-economico dominante.
[1] Il termine "laico" nell’uso culturale corrente significa non religioso, non ideologico. Il suo opposto è confessionale.
4. L’esperienza morale cristiana

Quanto detto fino ad ora possiamo tranquillamente definirlo "nihilismo della laicità".
Esso, come tutte le correnti di pensiero, si chiede quale senso ha il vivere e l’agire dell’uomo.
L’uomo non è solo cultura, un mero prodotto di se stesso.
E’ proprio il vivere disperso nella attualità delle cose di tutti i giorni a porci la domanda sul senso pieno dell’esistenza: del vivere, dell’amore, dell’agire, del soffrire e del morire.
L’uomo è l’unico essere che cerca di darsi delle risposte convincenti, di capire la profonda verità di se stesso e del mondo.
Se crediamo che la verità che dà senso all’agire umano ci raggiunge senza che ne possiamo disporre pienamente, è necessario, allora, interrogarci su ciò che ci trascende.
L’esperienza morale, che non è altro che ricerca del proprio senso ultimo, può avvicinarci al mistero, all’assoluto, alla verità.
Sorge, allora, la domanda: quando l’esperienza morale umana diventa esperienza morale cristiana?
L’esperienza morale umana diventa cristiana quando il soggetto agente, avvicinandosi all’assoluto, fa il suo incontro con Cristo, riconosciuto e accolto come unico valore della vita, come il senso unico per l’uomo.
Si farà esperienza morale cristiana quando ci sarà convergenza esistenziale tra il naturale bisogno di verità, presente in ogni persona, e la risposta appagante di Cristo.
Secondo il Concilio Vat. II (1962-1965) ci sarà autentica esperienza morale cristiana quando la chiamata ad esser uomo viene riconosciuta come vocazione in Cristo con tutto ciò che questo comporta, cioè: un coinvolgimento radicale del proprio esistere in quello di Cristo, in oblazione al Padre nello Spirito, per la vita del fratelli (OT n. 16).
In definitiva Cristo, uomo perfetto, diventa la verità dell’uomo (GS n. 22). In questo caso la vita morale coincide con la vita cristiana.

5. Cos'è la teologia morale

La tematica del corso, che stiamo svolgendo, è definita nei suoi contenuti dal titolo stesso del corso: teologia morale fondamentale.
Delle tre parole che compongono questo titolo, la più ampia di significato è senz'altro il termine «morale», usato qui come aggettivo, ma può essere usato anche come sostantivo: es. morale teologica.
Il vocabolo 'morale' è la traduzione letterale del vocabolo latino mos. Moralità traduce, invece, il vocabolo moralitas.
Questo vocabolo fu coniato da Cicerone (106-43 a.C.) per tradurre il vocabolo greco ethos, che, sta ad indicare l'insieme dei sentimenti interiori di una persona o di un popolo.
L'aggettivo o il sostantivo 'morale' indica, quindi, il comportamento o vissuto quotidiano di una persona e di un popolo. Il vocabolo sarà sempre e solo riferito ad un comportamento posto o ponibile in essere da un soggetto libero.
Il concetto di morale è riferito principalmente all'elaborazione e alla messa appunto di scelte libere, cioè alla «morale vissuta».
Questa implica necessariamente i seguenti elementi:

1. Una persona umana quale soggetto del pensare e dell'agire morale.

2. Un processo interiore di tale individuo capace di valutare e di determinare proprie decisioni. Questo processo è effettuato tramite la coscienza.

3. Decisioni caratterizzate dalla «libertà», poiché le scelte, per avere valenza morale, non devono essere determinate né da coazione esterna (ambiente, fatalità, Dio), né da coazione interna (fisica, psichica).

4. Principi d'azione che rendano possibile scelte significative, indicati più precisamente con il termine di «legge morale».

5. La responsabilità, cioè l'adempimento di una scelta «giusta» che consenta alla persona lo sviluppo della sua vita nel modo più significativo possibile, in rapporto ai principi di azione suddetti.

Il passaggio dall'elaborazione della scelta morale alla sua esecuzione chiama in causa la categoria della moralità. Essa riguarda la «morale agita» e conserva sempre il carattere dell'ambivalenza:
- il comportamento è positivo se l'agire della persona è coerente con le indicazioni normative ricevute dal confronto, compiuto in coscienza, con la legge morale in una determinata situazione;
- è negativo se l’agire non è coerente con le indicazioni suddette.
6. Definizione di Morale

La teologia morale è una parte della teologia, la quale indaga sulle realtà di Dio svelate dalla Rivelazione.
La teologia riflette su Dio e di conseguenza sulle realtà create e rivelate.
La Rivelazione ha lo scopo di manifestare, in modo non definitivo, i misteri di Dio, con l’intento di arricchire le conoscenze umane. Essa è, però, soprattutto rivelazione di salvezza.
Dio, nella sua infinita bontà, decide, dopo il peccato di origine, di riprendere il discorso di comunione e concludere un’alleanza: vuole, cioè, far tornare l’uomo alla comunione con sé, vuole donargli la salvezza.
Ne segue che la Rivelazione è una chiamata che esige dall’uomo una risposta, che non è solo frutto dell’intelletto, ma coinvolgente anche l’agire.
La teologia, allora, non solo deve conoscere le verità rivelate, ma deve proporre un progetto di vita, che ogni uomo è libero di realizzare.
Elaborare detto progetto, secondo la volontà e il disegno di Dio, spetta alla teologia morale.
La teologia morale, dunque, indaga le verità di salvezza, elabora e propone un progetto di vita per ogni uomo.
Essa ricerca il modo in cui l’uomo deve progettare la sua esistenza alla luce della chiamata alla vita soprannaturale.
Indaga sui valori e le norme che la rivelazione suggerisce per l’agire umano.
Da quanto detto possiamo abbozzare una prima approssimativa definizione: la teologia morale è quella parte della teologia che elabora norme per il libero agire umano alla luce della rivelazione.
Ponendo, poi, al culmine della rivelazione Cristo, soggetto e oggetto di essa, la chiamata e la destinazione di ogni persona è per Cristo e in Cristo (Ef 1,4).
Cristo è il prototipo secondo il quale ogni persona è stata creata, è stata redenta e viene chiamata alla comunione di vita e di destino con Lui.
La TM, che vuole definirsi cristiana, deve fondarsi su Cristo e sui misteri della sua vita, soprattutto, sul mistero pasquale.

7. Natura e oggetto della teologia morale

La natura della teologia morale può essere spiegata e capita solo a partire dalla prassi cristiana.
Questa si definisce come: un evento storico che origina dalla storica autocomunicazione di Dio in Cristo e dalla libera collaborazione dell'uomo.
La teologia morale è, quindi, la comprensione scientifica e l'esposizione sistematica della vita dei seguaci di Cristo, vissuta all'interno della comunità ecclesiale.
Essa è, dunque, un sapere riflesso.
Una forma di riflessione, operata alla luce di Cristo, all'interno della Chiesa (VS n. 29), impostata scientificamente:
- sul Vangelo come dono e comandamento di vita nuova,
- sulla vita "secondo la verità nella carità" (Ef 4 15),
- sulla vita di santità della Chiesa, nella quale risplende la verità del bene portato sino alla sua perfezione» (VS n. 110).
Ne consegue che passiamo dare della teologia morale una ulteriore definizione: quella parte della teologia che ha come oggetto l'intelligenza della vita dei fedeli in Cristo.
Il Concilio Vaticano II, infatti, afferma che la teologia morale deve illustrare scientificamente:
- «l'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo,
- il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo» OT n. 16).
In altre parole la teologia morale intende portare «a consapevolezza riflessa la vita che nasce dal nostro essere in Cristo per mezzo dello Spirito, verificandola costantemente sul suo principio che è la Rivelazione, testimoniata dalla Sacra Scrittura e dalla Tradizione»[1].
La nascita e lo sviluppo della riflessione teologico‑morale risponde a istanze in parte comuni a tutta la teologia e in parte specifiche.
L'uomo, ogni uomo è stato creato con la capacità di accogliere la verità e di riflettere su ciò che è e ciò che fa.
Il credente, poi, ha in sé il «dinamismo proprio della fede» (DV n. 6). Questa, svelandogli la verità sul suo fine ultimo e la via per raggiungerla, chiede di essere capita e comunicata.
La riflessione teologico-morale serve quindi:
- a rafforzare la vita dei fedeli;
- a spingere la Chiesa all'attività apostolica;
- a risponde all'esigenza «della vita in Cristo di dirsi in un discorso umano coerente e riflesso»[2]
L'esistenza morale cristiana è evento che si realizza nella storia. L'agire morale cristiano, ma anche l'agire morale umano in generale, è la realtà che più di ogni altra è segnata dalla contingenza e dai cambiamenti storici, culturali, scientifici e tecnologici. Le azioni sono sempre singolari, ma le circostanze sono molteplici e variabili.
Dare unità alla molteplicità e alle variabili storiche spetta alla teologia morale, che si configura come un servizio ai fedeli per rendere attuale la cosmovisione evangelica.

8. Lo statuto scientifico della teologia morale

Il concetto di teologia morale come intelligenza della vita dei seguaci di Cristo, deve essere ulteriormente precisato.
E' necessario chiarire meglio la modalità specifica di intelligenza della vita cristiana che essa intende raggiungere.
La riflessione morale odierna tende a concepire la vita morale come un fatto: il fatto morale.
In questo contesto la teologia morale avrebbe il compito di spiegare il fatto morale, in modo analogo a come le scienze della natura spiegano i fatti naturali.
Per la maggioranza il fatto morale consiste nella coscienza che il soggetto deve avere dei valori e dell'obbligazione morale da essi derivata.
Ne consegue che: compito della teologia morale è quello di fondare l'obbligazione morale e di individuarne i principali contenuti.
La teologia morale si configura, allora, come un sapere sulle norme morali da osservare. Quindi come 'morale dell'obbligazione'.
Questa concezione della teologia morale si è sviluppata:
- con l'intendo di dialogare il più possibile con la mentalità scientifica moderna,
- con il desiderio di rendersi più facilmente comprensibile agli uomini del nostro tempo,
- con l'intendo di inculcare nella gente che la riflessione morale è un sapere normativo, e non una semplice descrizione dei comportamenti.
Il fatto, però, di prendere a modello le scienze della natura per la comprensione di qualsiasi sapere scientifico e a cui ogni scienza dovrebbe adeguarsi, porta la riflessione teologico-morale a comprendere la prassi morale con un metodo che ne stravolge la natura e la specificità.
La vita morale, infatti, non è una realtà che possa essere compresa dalla prospettiva di un osservatore esterno, perché questi tende a considerare e a valutare l'agire umano come azione di una terza persona.
Questo modo di elaborare la riflessione sull'agire umano viene definita come morale indagata dalla «prospettiva della terza persona».
L’approdo di questa metodologia è la morale dell'obbligazione, perché analizza la realtà umana dall'esterno, mentre invece l'azione umana nasce e acquista la sua moralità nel cuore dell'uomo (Mt 15,16-20).
Questa contraddizione origina notevoli equivoci già a livello di teoria dell'azione (VS n. 78).
Il problema morale, quindi, «prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita» (VS n. 7).
La vita morale deve essere colta, appunto, come una condotta di vita, che va capita e valutata primariamente in riferimento al fine verso il quale il soggetto morale conduce se stesso, e, solo derivatamente, può fare riferimento a delle norme.La vita morale cristiana è l'attività con la quale il cristiano, sulla base della fede e delle altre virtù cristiane e umane, elabora un piano di vita, atto a determinare il modo e la misura secondo i quali devono essere cercati, usati o realizzati i diversi beni, per poter pervenire alla pienezza di senso.
Detto piano consente al fedele di individuare le azioni e i comportamenti che qui e ora realizzano concretamente la vita in Cristo.
La teologia morale coglie l’ordine immanente alla vita cristiana e lo porta alla consapevolezza riflessa e scientifica, esplicitandone i principi e la logica interna, verificandone la congruenza con la Rivelazione, favorendone la comunicabilità.
L'attenzione della riflessione teologico-morale si concentra, quindi, sul fine, che è il bene della vita umana presa come un tutto, e che il soggetto morale esibisce giorno per giorno attraverso comportamenti concreti.
La teologia morale assume, in questo modo, la prospettiva interiore del soggetto agente e autore della sua condotta.
Si pone, cioè, nella prospettiva della prima persona e del dinamismo intenzionale interno che informa le azioni umane.
In questo corso cercherò di elaborare un sapere teologico della vita morale cristiana seguendo l'impostazione della prima persona.
Assumo questa visione per due ragioni fondamentali:
- perché ritengo che è più idonea per capire ed esprimere la moralità come fenomeno umano,
- perché ritengo che sia anche più idonea per comprendere ed esporre scientificamente la morale cristiana a partire dalla Rivelazione.

Da quanto detto si può dedurre che la teologia morale è una «scienza operativa»,[1] una scienza pratica o almeno un sapere che possiede alcune delle caratteristiche metodologiche delle scienze pratiche.
Sorge, allora, il problema: come una scienza pratica può far parte della teologia, tradizionalmente considerata come una scienza speculativa?
La risposta chiarisce che la teologia morale:
- è un sapere morale che riguarda «il bene e il male degli atti umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini»,
- è teologia, scienza su Dio, «in quanto riconosce il principio e il fine dell'agire morale in Colui che "solo è buono" e che, donandosi all'uomo in Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina» (VS n. 29).
[1] Cf S. Th., I-II, q. 6, prol.
[1] CAFFARRA C., Op. cit., 72.
[2] Ibiem, 73.
9. Le fonti della teologia morale

Le fonti della teologia morale sono le stesse dell'intera teologia, che sono oggetto di studio della teologia fondamentale.
Esse sono:

9.1. Sacra Scrittura e Tradizione

Fondamento perenne della teologia morale è la Rivelazione divina.
Il Concilio Vaticano II afferma che «la Sacra Teologia si basa, come su un fondamento perenne, sulla parola di Dio scritta, insieme con la Sacra Tradizione, e in quella vigorosamente si consolida e ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo» (DV n. 24).
Il sapere teologico è lo sforzo umano di capire e approfondire scientificamente il contenuto della Rivelazione accolto nella fede.
La teologia è la scienza della fede, perché ha nella fede:
- principi propri,
- contenuti propri,
- la luce propria, che illumina e rende possibile l'approfondimento razionale.
Il dinamismo interiore del sapere teologico fu espresso da Sant'Agostino con la celebre formula «credo per comprendere e comprendo per meglio credere», nella quale si evidenzia che la fede è: la meta e la regola intrinseca della teologia.
La Rivelazione divina raggiunge il suo compimento in Cristo Gesù, che ordinò agli Apostoli di predicare a tutti il Vangelo, «come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale» (DV n. 7).
Gli apostoli «e gli uomini della loro cerchia» lo fecero sia oralmente che per iscritto (DV n. 7).
La Rivelazione viene trasmessa:
- attraverso la Sacra Scrittura,
- attraverso la Sacra Tradizione che ha origine in epoca apostolica.
Scrittura e Tradizione «sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una sola cosa e tendono allo stesso fine… Perciò l'una e l'altra devono essere accettate con pari sentimento di pietà e riverenza» (DV n. 9).
La Tradizione, poi, è una realtà viva, che «progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con l'esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità» (DV n. 8).
Ciò significa che la Sacra Scrittura, scritta per ispirazione divina e consegnata alla Chiesa, va letta e capita sotto la guida della Tradizione, di cui la Chiesa è depositaria (1Pt 1,20-21).
La Sacra Scrittura senza la Tradizione è formalmente insufficiente, infatti questa garantisce il riconoscimento del canone delle Scritture e la loro corretta interpretazione. Entrambe sono legate in modo tale da non poter indipendentemente sussistere (DV n. 10; CCC n. 74-83).

9.2. Il magistero della Chiesa

Cristo ha promesso l'assistenza dello Spirito Santo affinché la Chiesa conservi intatto il deposito della divina Rivelazione credendo e insegnando.
L'ufficio di interpretare autenticamente e di custodire la parola di Dio è stato affidato al magistero della Chiesa. Esso non è al di sopra della parola di Dio, «ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso» (DV n. 10).
Il Concilio Vaticano II ha sottolineato l'intimo legame tra Scrittura, Tradizione e Magistero. «La Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere, e che tutti insieme, ciascuno secondo il proprio modo, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime» (DV n. 10).
L'ufficio di insegnare in materia di fede e morale spetta al Papa e ai Vescovi in comunione con lui. Essi «devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità» (LG n. 25, 1), anche quando non intendono definire dogmaticamente una dottrina (CIC, can. 752).
Gli insegnamenti del magistero vincolano la fede del credente quando questi impegna il carisma dell'infallibilità. Di tale carisma godono gli atti del magistero solenne e quelli del magistero ordinario universale.
Sono atti del magistero solenne:
- le definizioni «ex cathedra» del Romano Pontefice,
- le definizioni del Collegio Episcopale con il Romano Pontefice e da lui approvate (per esempio, in un Concilio Ecumenico) (LG n. 25,3).
Si ha invece un insegnamento infallibile del magistero ordinario e universale quando i singoli Vescovi, «anche dispersi per il mondo, ma conservanti il vincolo della comunione tra di loro e col Successore di Pietro, nel loro insegnamento autentico circa materie di fede e di morale si accordano su una dottrina da ritenersi come definitiva» (LG n. 25,2).
Circa il valore del magistero, si deve tenere presente:
- la natura dell'atto magisteriale,
- il diverso grado o qualifica delle dottrine insegnate,
- il tipo di adesione richiesto.

10. Divisione della teologia morale

Prescindendo dai contenuti, credo che si possa ancora mantenere la divisione generale e tradizionale, cioè: teologia morale fondamentale e teologia morale speciale.
Il contenuto e l'esposizione saranno però diversi da quelli dei manuali, in quanto si tenta di seguire la metodologia voluta dal Vaticano II, che prescrive un più vivo contatto della teologia morale col mistero del Cristo.
In questo corso si tratterà solo della teologia morale fondamentale, che è la parte decisiva per tutta la vita morale.
Divideremo il trattato nelle seguenti parti:
- I fondamenti biblici della teologia morale,
- Natura e fondamento dell'esigenza morale;
- La coscienza e la percezione della sua esigenza morale;
- Gli elementi generali dell'azione morale;
- Il problema del peccato.

[1] Cf S. Th., I-II, q. 6, prol.