lunedì 17 maggio 2010

FONDAZIONE STORICA: parte seconda

LA MORALE MEDIOEVALE

1. Quadro generale

Consideriamo periodo medioevale quel lungo periodo che va dalla fine della patrologia, che possiamo far coincidere con la morte di San Giovanni Damasceno avvenuta nel 749, all’inizio del rinascimento sec. XVI.
Geograficamente si svolge soprattutto in Europa. Culturalmente ci si riferisce a quella cristianità che nasce con l’ingresso nella fede cristiana dei popoli cosiddetti barbari, che hanno preso il sopravvento sull’impero romano.
Ci si riferisce, inoltre, allo sviluppo della teologia morale nella cristianità occidentale romanica e gotica.
Tuttavia, anche se non se ne faranno cenni espliciti, non si può non tenere conto dell’esistenza di un altro universo cristiano, che si formato attorno all’ortodossia orientale e all’impero d’oriente.
Inoltre la cristianità occidentale non si potrà comprendere senza un riferimento all’Islam come nuova forma religiosa di intendere e vivere l’esistenza e come ambito culturale e filosofico in cui si rielabora e si trasmette il pensiero filosofico e culturale dell’antichità greco-romana.
Nella storiografia si assiste a una rivalutazione del medioevo. Non è più considerato il "periodo buio", "l’età di mezzo" tra l’ideale dell’antichità e il rinascimento dell’età moderna. L’epoca che chiamiamo "medioevale" ha i suoi aspetti oscuri, ma presenta anche elementi di autentico "illuminismo" umano e religioso.
La teologia morale ha conosciuto uno sviluppo decisivo durante il medioevo dell’occidente cristiano. Questa è l’epoca della costituzione del sapere teologico. «Questo è il periodo più ricco della teologia in generale e anche della teologia morale» (Valsecchi).
In questo periodo la morale è una disciplina all’interno della riflessione teologica. Non esiste ancora una riflessione indipendente. Tuttavia raggiunge all’interno della teologia il suo statuto epistemologico. Ha inizio in questo periodo con l’adozione di Aristotele, come autore di ispirazione, da parte della filosofia, la nuova disciplina filosofica denominata etica. Questo evento, anche se in qualcuno come in Bonaventura ha significato un freno, a lungo andare ha aiutato lo sviluppo della specificità e del contenuto della riflessione morale cristiana.
Nello sviluppo del pensiero teologico-morale del medioevo possiamo distinguere due aspetti caratterizzanti:
- l’aspetto speculativo,
- l’aspetto pratico.
La morale speculativa è collegata all’insieme della riflessione teologica. La morale pratica, invece, è vincolata al sacramento della penitenza e assume l’aspetto di due grandi generi letterari:
- i Libri penitenziali,
- le Somme dei confessori.
I due aspetti, comunque, non sono separati ma in reciproca dialettica. Per motivi didattici li trattiamo in due paragrafi distinti.

2. Morale speculativa

Lo sviluppo della riflessione morale va configurata in quattro momenti che possono essere simboleggiati dalle quattro stagioni:
- Inverno: il passaggio dalla patristica alla cristianità medioevale, da San Gregorio Magno (m. 604) a Sant’Anselmo d’Aosta (1109).
- Primavera: il risvegliarsi teologico nel sec. XII.
- Estate: la maturità del sec. XIII.
- Autunno: le nuove tendenze dei sec. XIV e XV.

3. Alto medioevo

Questo periodo va, come abbiamo detto, dalla fine della patristica fino a Sant’Anselmo, dal sec. VII al sec. XI. Epoca che gli storici della morale definiscono "inverno" in quanto a vita cristiana, perché:
- si sgretola la cultura romana,
- si fa strada un altro mondo quello dei popoli cosiddetti barbari,
- si produce una nuova inculturazione della fede con la nuova cultura e nasce il modo medioevale di intendere e di vivere il cristianesimo.
Gli autori che in successione vengono sinteticamente segnalati sono quelli che mi sembrano i più importanti per la riflessione morale.

4. Nuove tendenze

Questa è l’epoca della conversione dei popoli barbari al cristianesimo. In essa hanno giocato un ruolo importante i monaci irlandesi e bretoni.
All’inizio di questo periodo, circa il sec. VI si è diffusa, sempre per merito dei monaci, la penitenza privata o confessione auricolare. Questa consisteva:
- nella confessione dei peccati fatta in privato ad un prete,
- nell’imposizione di una penitenza determinata,
- nell’assoluzione finale.
Detta confessione era ripetibile e non comportava, come la penitenza canonica, interdetti penitenziali.
La cosa più importante in tutto questo era l’imposizione della penitenza, la quale doveva essere rispettosa delle cosiddette tariffe penitenziali: ad ogni colpa era assegnata una penitenza precisa, soprattutto digiuni, secondo una distinta casistica che teneva conto:
- delle circostanze dell’azione,
- della qualità dei penitenti, cioè: clero, monaco, laico, uomo o donna.
Le tariffe erano indicate in libri riservati ai confessori, intitolati Libri penitenziali.
La storia di questi libri è veramente difficile da raccontare. Ogni diocesi praticamente aveva una sua lista di peccati e di penitenze, dove l’enumerazione delle colpe era enormemente diversificata e l’elenco delle penitenze assolutamente indipendente.
Il rinascimento carolingio cercò di mettere un po’ d’ordine e tentò soprattutto di rendere più interiore la pratica della penitenza. Ci riuscì in parte.
L’ultimo libro penitenziale va considerato il Corrector sive Medicus, che costituiva il XIX libro del Decretum di Burcardo (m. 1010) vescovo di Worms.

5. Anelli di congiunzione

Sono quegli autori che mi sembra facciano da congiunzione tra la cultura romana e quella barbara. Sono autori che hanno avuto successo per tutto il medioevo. I più rappresentativi sono senz’altro Sant’Isidoro di Siviglia (m. 636) e Cesario di Arles (M. 542).
Boezio (480-525). Nacque a Roma e morì a Pavia. Fu cortigiano di Teodorico, re degli Ostrogoti. E’ considerato «l’ultimo scrittore romano» o «il primo scrittore scolastico». Incarcerato, scrive il De consolatione philosophiae, opera in cui espone la sua morale. Questa ha come obiettivo la beatitudo (felicità), intesa con evidente sfumatura stoica. Di Boezio è la definizione classica di persona: «rationalis naturae individua substantia».
Beda il Venerabile (673-735). Nacque in Inghilterra. Fu monaco. Fu uomo di grande cultura e autore prolifico. Le sue opere teologiche sono di carattere esegetico. Fu apprezzato nei secoli successivi, soprattutto da San Tommaso. Offre un inizio di fondazione teologica della vita cristiana, «una vita nuova in Cristo» iniziata con il battesimo e continuata attraverso la pratica delle virtù, specialmente delle virtù cardinali.
Rabano Mauro (784-856). Nacque e morì a Magonza. Fu monaco, abate di Fulda e vescovo di Magonza. Svolge il lavoro di formatore e di volgarizzatore della teologia. Scrive un trattato di teologia morale fondato sull’esercizio delle virtù.

4.1. Rinascimento carolingio

Per rinascimento carolingio si intende quella ripresa culturale che ci fu alla fine delle grandi invasioni barbariche e la nuova notevole stabilità politica instaurata dall’impero carolingio.
Consolidato il potere con numerose campagne militari, Carlo Magno (742-814) si era proposto una riorganizzazione dell’amministrazione pubblica, sul modello di quella ecclesiastica e una promozione culturale del popolo, iniziando da una riqualificazione del clero. Morale cristiana e Bibbia erano il fondamento comune per una possibile rinascita. Le opere dei Padri, sfuggite alla distruzione, furono gli strumenti per la rigenerazione
Uno dei meriti di Carlo Magno fu la sviluppo della scuola anche per i ceti medio bassi.
Importante fu l’opera di Alcuino di York (735-804).

Alla morte di Carlo Magno vi fu un notevole mutamento sociale ed economico nell’impero con conseguenze anche sulla cultura e sull’educazione.
Il dissolvimento dell’impero fece crollare l’ordine costituito nella cristianità occidentale. Ha inizio prima la riforma del monachesimo (riforma di Cluny nel 950) e poi quella della chiesa con Gregorio VII (1073-1083).
C’è da segnalare: l’affermazione del commercio e dell’artigianato, l’espansione della religione islamica, le crociate (la prima fu proclamata da Urbano II nel 1095). Questi eventi contribuirono a mettere in crisi la struttura feudale e al sorgere della borghesia.
Il sec. XI fu un secolo di transizione in cui scoppiarono grosse polemiche in campo teologico. La più grave portò allo scisma d’oriente del 1054.
La seconda metà del secolo fu turbata dalle teorie eucaristiche di Berengario di Tours e dall’introduzione della dialettica nella ricerca teologica che ebbe il personaggio di spicco in San Pier Damiani (Ravenna 1007 - Faenza 1072), monaco italiano, dottore della Chiesa e santo.
Questi nel 1043 divenne priore del monastero di Fonte Avellana, vicino a Gubbio. La sua opera fu improntata alla lotta contro gli abusi e l'immoralità del clero, in particolare contro la simonia e la violazione del voto del celibato. A tale riguardo invocò riforme presso il papa Leone IX.
Divenne cardinale e vescovo di Ostia (decano del Sacro Collegio dei cardinali) nel 1057, e due anni dopo presiedette un concilio a Milano. Legato di molti papi, collaborò in particolare con Ildebrando di Soana, divenuto papa Gregorio VII nel 1073. Fu tra gli scrittori latini più fecondi ed eleganti del Medioevo, lasciò un vasto corpus di scritti teologici di vario genere.
L’inizio del secolo vide l’opera riformatrice di San Romualdo (952-1027), il quale sentì l’esigenza di una effettiva povertà, maggiore austerità e forte desiderio di vita solitaria.

Il sec. XII è senz’altro un secolo molto fecondo per l’approfondimento della teologia. Nascono in questo secolo le grandi scuole teologiche: monastiche, canonicali e urbane, nelle quali si inizia ad elaborare sistematicamente la riflessione teologica. Nascono le università con il conseguente accesso alla cultura dei ceti più vari.
Va segnalata la pubblicazione nel 1140 del Decreto di Graziano, monaco camaldolese, la più completa raccolta di leggi per un totale di 4.000 testi. E’ stato il testo di insegnamento del diritto canonico della chiesa fino al 1917.
Nella seconda metà del secolo iniziano a diffondersi le cosiddette Sentenze e le Somme: un tentativo di operare una sintesi fra le varie tendenze teologico-morale.
Alcuni teologi in questo periodo hanno cercato di dedurre dalla dottrina di Agostino il cosiddetto agostinismo politico, cioè: il potere temporale dei laici va diminuito al massimo e va rafforzato quello ecclesiastico e particolarmente quello papale. Si tende ad attribuire alla chiesa e al Papa il fondamento di ogni potere, giurisdizione e diritto anche nell’ordine temporale. Il Papa deve essere detentore del potere spirituale e di quello temporale.

4.2. La teologia del sec. XII

Gli storici della teologia parlano di rinascita teologica nel sec. XII. Si passa dalla sacra pagina alla teologia scolastica.
In questo secolo le scuole divengono ambiti di trasmissione del sapere, della formazione teologica e della ricerca nelle scienze cristiane. La varietà della riflessione teologica è data dalla differenza tra le scuole. Come abbiamo già annotato vanno distinte le scuole monastiche, canonicali e urbane.

4.3. Le scuole monastiche

Queste iniziano a fiorire con la riforma di Cluny (950) e quella di Citeaux (inizio del 1100). I due protagonisti delle rispettive riforme sono Pietro il Venerabile (m. 1156) e Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), ma il vero iniziatore della scuola monastica è da ritenersi Sant’Anselmo di Aosta (1033-1109).
Il primo impulso dello sviluppo della teologia monastica fu la fioritura delle scuole nate all’ombra dei monasteri. L’ordine monastico sentì la necessità di un profondo rinnovamento spirituale specialmente in ciò che riguardava la solitudine e la povertà. Abbiamo già detto di Cluny e di Citeaux e della Regola di Romualdo.
Il clima di riforma fu senz’altro alimentato dall’intensificarsi della teologia monastica, la quale era alimentata in profondità dalla Sacra Scrittura e dalla letteratura patristica. Diffidò dell’uso toppo esteso della dialettica e richiese disposizioni di umiltà e di semplicità
Oggetti preferiti di riflessione furono la storia della salvezza, in specie i misteri di Cristo, testimoniati dalla Sacra Scrittura e celebrati dalla liturgia. Il problema dell’unione dell’anima con Dio e della conseguente antropologia.
La teologia monastica era molto sensibile ai problemi morali anche se considerati in una prospettiva spirituale e ascetica. Non mancarono inevitabili tensioni con la teologia cosiddetta speculativa, perché c’era un forte rifiuto ad accettare i nuovi fermenti razionali e la conseguente necessità di mettere insieme dati tradizionali e audacia innovativa, fervore religioso e preoccupazioni metodologiche.
Si può affermare, senza paura di essere smentiti, che la teologia elaborata nei monasteri in questo periodo è prima di tutto una profonda riflessione sulla ricerca della perfezione. L’interesse dei monaci era quello di ricercare ciò che edifica e attrae la volontà all’amore della virtù. Un posto importante viene dato alla riflessione sulla libertà, collegata al progresso spirituale e a ciò che lo ostacola: i vizi, i peccati capitali, la tentazione e l’amore carnale.
La prima fonte di riflessione è la Bibbia i cui testi vengono letti secondo un’esegesi messa appunto da San Gregorio Magno, con una lettura spirituale e morale, facendo attenzione soprattutto su ciò che edifica e attrae la volontà all’amore della virtù. La Scrittura è la norma suprema non solo in materia di dottrina e di fede, ma soprattutto in materia morale.
La riflessione morale monastica si ispira a quella patristica. Si ispira a San Basilio, alle Collationes di Giovanni Cassiano, ma la fonte principale di ispirazione fu il Moralia in Job di San Gregorio Magno.

Parlando di scuola monastica no si può non parlare della celebre abbazia di Cluny. Fondata nel 909, ebbe nell’abate Oddone il suo grande riformatore, dandole una robusta linea di spiritualità.
Orientamento principale del monastero era la vita contemplativa per arrivare alla più alta ed intima unione con Dio. I mezzi per raggiungere tali altezze erano i seguenti: canto delle lodi divine, vita comune ritirata, attività moderata, studio delle sacre discipline, austerità effettiva, ma non eccessiva, culto delle arti decorative.
Cluny sentì la necessità di federarsi con altri monasteri e creare così un ordine centralizzato. I più famosi abati di Cluny furono Pietro il Venerabile (1092-1158) e Bernardo di Cluny (1091-1153).

La scuola cistercense ebbe come caratteristica una interpretazione letterale della Regola di Benedetto. Cistercense deriva dalla cittadina francese Citeaux, vicino a Digione, dove fu fondato da Roberto abate di Molesmes il primo monastero riformato nel 1098. Suoi successori furono Alberico e Stefano Harding.
Lo scopo della riforma: ritornare alle fonti autentiche del monachesimo, alla monastica puritas. Sua caratteristica: la contemplazione che deve portare all’unione mistica con Dio. I mezzi utilizzati sono: la recita delle ore canoniche, austerità nella vita e povertà nel mangiare.

5. La scuola di San Vittore

In contemporanea con le scuole monastiche sorsero le scuole canonicali, si tratta di scuole di teologia gestite dai canonici regolari, i quali pur vivendo la vita conventuale, si dedicavano anche ad attività pastorali.
Dette scuole sono caratterizzate dal metodo teologico: si rifanno alla riflessione monastica, ma sono aperte alle nuove correnti di pensiero.
La più famosa fu la scuola di S. Vittore di Parigi.
Detta scuola era tenuta dai canonici regolari di Sant’Agostino. Fu fondata nel 1108 o 1109 da Guglielmo di Champeaux (1070-1122) che era stato discepolo di Sant’Anselmo di Laon (1050-1117). La scuola di San Vittore fu resa illustre da Ugo e Riccardo, ma divenne ben presto un grande centro intellettuale con varie filiazioni sparse un po’ ovunque.
La caratteristica fondamentale della scuola è quella di essere propedeutica alla vita mistica. Infatti, accanto ad una scienza propriamente teologica, basata sullo studio della Sacra Scrittura, si insegnavano anche discipline propriamente razionali. Si insisteva sulla necessità della preghiera e della contemplazione, si fondeva mistica e cultura.
I teologi di San Vittore, detti vittorini, sostengono che la creazione è opera del Verbo, la parola di Dio esteriore. Ogni creatura è come una sillaba che esprime il Verbo e che permette all’uomo di innalzarsi fino al Creatore. Poiché l’ordine dell’universo è stato messo a soqquadro dal peccato, Dio ha donato all’uomo un nuovo segno: l’umanità di Cristo, perché possa elevarsi. L’umanità di Cristo è incentivo all’imitazione e guida per arrivare all’amorosa contemplazione.
Nella scuola di San Vittore, accanto all’insegnamento della sacre Scritture, si impartisce anche l’insegnamento delle «scritture secolari». Innovazione però incerta, non si tratta di una integrazione, ma di semplice giustapposizione, non integrazione, ma correlazione tra i due campi del sapere.
A San Vittore si ha una visione pessimistica della filosofia profana, in modo particolare dell’etica filosofica. Questa è ritenuta una morale tronca e senza vita, incapace di dare una precisa impostazione alla vita umana. Sola la scienza morale fondata sulla Sacra Scrittura può riformare l’uomo. Intuizione importante che però resta tale.
Ugo di San Vittore (1096-1141) e Riccardo di San Vittore (m. 1173).

6. Le scuole urbane

In parallelo con le scuole monastiche sorgono nel sec. XII le scuole urbane, chiamate anche episcopali o collegiate.
In queste scuole, la cui età dell'oro si apre contemporaneamente all'emergere di una borghesia urbana, si manifesta una tendenza completamente diversa dalle scuole monastiche.
Esse intendono restaurare le sette arti liberali e le tre parti della filosofia: logica, fisica, etica. I vari maestri, non potendo commentare i filosofi greci, cercano di stabilire una alleanza tra la grammatica, la retorica e l'etica. Il fine è quello di riscoprire l'insegnamento morale degli antichi, ma integrandone gli elementi in una sintesi cristiana superiore. Il loro metodo consiste nella lettura delle opere morali dell'antichità, commentate capitolo per capitolo secondo le regole dell'allegoria che lascia maggior libertà al commentatore.
Si compongono così dei Florilegi nei quali si raggruppano secondo un piano personale o tradizionale, come quello delle quattro virtù cardinali, i testi morali dei più diversi autori. Il più celebre è il Florilegium gallicanum, che cita i testi con i nomi degli autori.
Così, per esempio, veniamo a conoscere tutta una serie di note morali di Orazio sulla povertà, sull'ubriachezza, sul buon rapporto coniugale.
La scuola urbana più famosa è quella di Chartres. Essa passa dal florilegio sistematico ad opere di elaborazione personale arricchite da numerose citazioni.
Il maestro più famoso della scuola è Bernardo di Chartres (m. 1130), il quale insegnava ai suoi allievi a raccogliere e raggruppare i brani morali degli autori studiati.
Un altro grande maestro è Guglielmo di Conches (m. 1145), al quale viene attribuito il Moralium dogma philosophorum, che non è altro che un adattamento del De officiis di Cicerone.
Giovanni di Salisbury (m. 1180), vescovo di Chartres, insegna una morale basata sull'idea del bene e della virtù. Distribuisce i doveri dell'individuo secondo quattro temi: la ricerca del bene proprio; il disprezzo del mondo; il rispetto del prossimo; la religione verso Dio. In lui si trovano i primi elementi di una morale familiare e politica.
Il più noto autore della scuola urbana e senz’altro Pietro Abelardo (1079-1142), genio e sregolatezza.
Nella seconda metà del sec. XII si opera una specie di sintesi tra tutte le tendenze presenti fin dall’inizio del secolo. Nasce il genere letterario delle Sentenze e delle Somme, come anche dei trattati teologici.
Prende cioè corpo l’esigenza di raccogliere e riportare, insieme ai brani biblici esprimenti la fede, anche le interpretazioni che di esse avevano dato i Padri.
Le Summe sententiarum furono vere e proprie enciclopedie della dottrina cristiana, strumenti essenziali per lo studio e l’insegnamento nel medioevo.
Tra le Sentenze più celebri citiamo quelle di Anselmo di Laon (1050-1117) e di Pier Lombardo (m. 1159).
La teologia morale è presente nel testo di quest’ultimo con un ragionamento incrociato: se nel libro II si trova un embrione di morale generale ‑ atto libero, peccato ‑, la morale speciale è presente nel III: Cristo ebbe le virtù teologali? che cosa sono? cos'è la carità? è superiore ai comandamenti? quali sono? Nel libro IV si parla dei sacramenti e di conseguenza della penitenza e del matrimonio.
Nelle Sentenze del Lombardo la morale non occupa certo un posto specifico: dogma e morale sono intimamente legati. Per questo la morale delle Sentenze è centrata sui valori positivi: non sul peccato e sulle interdizioni bensì sulla carità e sulla dignità cristiana dell'immagine di Dio.
Si può comprendere l'importanza delle Sentenze di Pier Lombardo se si tiene presente che il commentario di esse sarà materia obbligatoria per la formazione di tutti i dottori in teologia dall'inizio del sec. XIII fin quasi alla fine del XIV.
Nel suo trattato De virtutibus, de vitiis, de donis Spiritus Sancti, scritto nel 1161, Alano di Lilla (m. 1202) utilizza per la prima volta l'espressione theologia moralis. Egli mette in evidenza l'idea di natura e per mezzo di essa crea un punto di equilibrio rispetto alla morale dell'intenzione di Abelardo, insegnando che il contenuto dell'intenzione è determinato dalla legge naturale illuminata dalla fede.
Anche questo autore solleva la questione del valore per il cristiano delle virtù naturali, segno della difficoltà di integrare fra loro virtù teologali e virtù morali.
L'insegnamento morale di Alano di Lilla è caratterizzato dallo sviluppo culturale e dalla ricerca di un ritorno alle fonti del Vangelo.

7. Il secolo XIII

Nel corso del XIII secolo si danno maggiori possibilità di contatti con il vicino oriente, l’intensificarsi di scambi mercantili, mutamenti socio-culturali all’interno del mondo cristiano.
In particolare si può ricordare: il consolidamento della borghesia, la crescente autonomia del potere politico da quello religioso, l’affermarsi di un "certo spirito laico" nella vita sociale.
Per la riflessione teologica il sec. XIII è il secolo d’oro, il cui culmine fu senz’altro Tommaso (1224-1274), la cui riflessione fu preceduta e accompagnata da quella dei maestri parigini, della scuola francescana e di Alberto Magno.
Dal tempo di Agostino lo sviluppo teologico è più o meno ristagnato o si è completamente esaurito nel ripetere, sunteggiare e commentare.
Con il sec. XIII ha inizio, favorita dalla situazione socio-politica, una nuova fase creativa, dove trova sistemazione organica tutta la riflessione teologica dei secoli precedenti con appropriati approfondimenti.
Tre fatti importanti hanno influenzato decisamente la storia della morale cristiana:
- La fondazione delle università,
- La fondazione degli ordini mendicanti
- La scoperta della filosofia aristotelica.
Intorno alla metà del secolo si colloca la nascita e lo sviluppo della "scuola francescana" con Alessandro di Hales (1185-1245) e della "scuola domenicana" con Alberto Magno (1295-1280).

8. Tommaso D’Aquino (1224-1274)

Nacque a Roccasecca di Aquino (FR) nel 1224 e morì a Fossanova (LT) nel 1274. Compì i primi studi nel monastero di Montecassino. Li perfezionò a Napoli nello studio generale dei domenicani.
Entrò nell’ordine nel 1244 e nel 1245 fu mandato a compiere gli studi filosofici e teologici prima a Parigi e poi a Colonia dove ebbe come maestro Sant’Alberto Magno.
Nel 1252 iniziò l’insegnamento a Parigi prima come baccalaureato e poi come magister. Dal 1257 fu aggregato al corpo accademico dell’università la Sorbona.
Nel 1260 dovette lasciare l’insegnamento per divenire segretario di Urbano IV (papa dal 1261-1964) prima e Clemente IV (1265-1268) poi.
Dal 1268 al 1272 tornò ad insegnare a Parigi che lasciò definitivamente per prendere la direzione dello studio generale di Napoli. Invitato da Gregorio X (papa 1271-1276) al Concilio di Lione (1274), morì a Fossanova (LT) mentre era in viaggio nel 1274. Fu proclamato dottore della chiesa nel 1567.
Trasmise la sua dottrina in varie opere: Commentari alla Sacra Scrittura, Commentari filosofici, Commentario alle Sentenze, De malo, De virtutibus, De veritate, Summa contra gentes, Summa Theologiae. Tommaso fu un autore fecondissimo.
Tommaso fu un grande filosofo, ma soprattutto fu teologo.
Nel Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, sostiene che la teologia ha un carattere eminentemente speculativo, ha cioè come fine la contemplazione della verità. Questo lo sostiene contro la scuola francescana e contro il suo maestro Alberto Magno.
Certamente la teologia è anche pratica, perché la Sacra Scrittura, fonte primaria del suo studio, offre numerosi insegnamenti che riguardano i comportamenti pratici. L’aspetto pratico deve lo stesso essere trattato con metodo speculativo.
Il concetto di teologia introdotto da Tommaso è essenziale per la elaborazione di una dottrina morale cristiana, fondata sui principi dedotti della rivelazione, organizzato sul carattere scientifico della teologia nel suo insieme. L’Angelico sviluppa questi principi nella Summa Theologiae.
La Summa è l’opera più riuscita e rappresentativa dell’intero pensiero di Tommaso. Di carattere espressamente teologico, redatta in epoca matura, si pone come testo di introduzione degli studenti alla teologia.
Un trattato di teologia deve occuparsi di Dio: come essere in sé e come principio delle cose, come Bene, come fine ultimo delle creature, come via in Cristo per ricondurre a sé l’uomo decaduto.
La Summa contiene una trattazione che regola la vita morale di estensione pari agli altri trattati, si pone come contributo originale rispetto agli altri contributi teologici del tempo.

La distinzione del tema morale dal resto della teologia viene spiegata nel prologo della "prima secundae", dove si da una definizione di uomo estremamente originale e importante: «l’uomo è creato ad immagine di Dio, intelligente, libero e avente potere sui propri atti (per se potestativum)».
Tommaso, dopo aver trattato di Dio e delle sue prerogative, passa a parlare dell’uomo, considerato capace di essere principio del suo agire.
Dell’uomo e dell’antropologia, l’Angelico aveva già parlato nella Prima parte (qq. 75-102), aveva, cioè, parlato dell’uomo così come è stato creato da Dio. Nella Seconda parte si descrive come l’uomo deve divenire mediante i propri atti.
Il grande spazio all’esposizione del tema morale, all’agire dell’uomo e alla sua valutazione e le varie spiegazioni concettuali che vengono dedotte, non toglie all’insieme l’aspetto speculativo.
In altre parole Tommaso ha prodotto un grande sforzo teorico per dare al sapere cristiano i connotati della scienza, non si è limitato a ripetere quando già affermato dalle "auctoritates".
Tuttavia in Tommaso prevale sempre l’attenzione alle auctoritates rispetto alle esigenze speculative: viene, cioè, posto maggiore attenzione all’autorità della fede rispetto all’autorità dell’intelletto.
La riflessione di Tommaso, come il pensiero scolastico, procede con la proposta delle cose note, cioè delle affermazioni autorevoli (auctoritates), per cercare di pervenire ad una fruttuosa sintesi.

Questo è lo schema della trattazione della riflessione morale di Tommaso. Prima secundae: dopo aver trattato del fine o della beatitudine (beatitudo) al quale tende ogni uomo (qq. 1-5), si passa a trattare degli atti mediante i quali viene perseguito il fine. Gli atti umani in se stessi: sono quegli atti volontari propri dell’uomo, la loro psicologia e la moralità (qq. 6-21) e gli atti comuni con gli animali o istinti. Si passa a parlare delle passioni (qq. 22-48) e i principi degli atti umani, che sono: interiori (gli abiti buoni o virtù e doni e cattivi o vizi e peccati) (49-89), esteriori: la legge e la grazia (90-114), che hanno origine fuori dall’uomo, ma influiscono sul suo agire.
Nella Seconda parte si tratta degli atti particolari: gli atti comuni a tutti gli uomini (le virtù teologali (qq 1-46) e quelle delle virtù cardinali (47-170) e gli atti propri di alcune persone (171-170).
La morale di Tommaso è una morale della virtù e dei doni e non dei doveri, degli obblighi e dei peccati.

Come abbiamo già affermato, l’elaborazione morale di Tommaso è essenzialmente teologica, perché si iscrive nel suo generale discorso su Dio. E’ teocentrica.
Essa si inscrive nello schema dell’exitus delle creatura da Dio e del reditus delle creature a Dio. Il reditus è il ritornare all’origine della creazione attraverso l’agire umano. E’ in questa verità che l’agire morale, che ha il suo punto di partenza nella creazione, trova il suo spessore.
L’uomo, creato ad immagine di Dio e reso capace di gestire i propri atti, deve realizzare al meglio il suo orientamento a Dio in Gesù Cristo.
Se la realtà morale costituisce la realtà dell’uomo in cammino verso Dio, ne segue che il fine è la categoria fondamentale della riflessione morale dell’aquinate. Infatti il trattato sul fine è il fulcro dell’intero sistema morale del dottore angelico.
L’aver collocato il trattato sul fine all’inizio delle due sezioni in cui è divisa la Seconda parte, è frutto di una profonda intuizione: vuol dire che la beatitudine è il principio necessario e immutabile che funge da norma ad ogni azione concreta e costituisce il fondamento scientifico di dette azioni.
Tutto l’agire acquista senso e valore perché fa riferimento al fine. E’ il fine che specifica gli atti: sia come umani che come morali.

L’uomo realizza la sua vocazione nella storia e nel mondo ed è responsabile con Dio e gli altri dell’attuazione del disegno fondamentale che ha la sua realizzazione nel tempo, ma che trascende il tempo.
Come ogni creatura, l’uomo ha un fine, il suo bene, da realizzare, perché così ha voluto Dio nella creazione. Ne segue che egli ha un progetto stabilito da Dio da portare a realizzazione con la sua libera attività.
Il progetto per tutti è costituito dalla legge eterna di Dio di cui l’uomo è reso partecipe. La legge eterna costituisce il piano razionale di Dio, l’ordine dell’universo attraverso cui la divina sapienza dirige tutte le cose al loro fine.
L’uomo, come creatura razionale, partecipa del piano della divina provvidenza.
Partecipazione: è una categoria fondamentale nel discorso morale di Tommaso. Essa è decisiva per capire la natura umana. Infatti l’uomo, in quanto essere capace di autodominio (per se potestativum), non si inerisce nel piano divino in maniera solo esecutiva, non secondo una conformazione automatica alla lex aeterna, ma secondo il suo libero orientamento al bene.
Detta partecipazione si realizza in due modi: nella legge naturale e nella legge dello Spirito.

La prima e fondamentale partecipazione alla legge eterna avviene attraverso l’obbedienza alla legge naturale, in forza della quale la persona diviene consapevole della sua radicale vocazione.
Essa è il sigillo di Dio in noi, che è carico di promesse e responsabilità. Non è una imposizione dall’esterno, ma è iscritta nel più profondo della natura umana.
Nucleo essenziale della legge naturale è il precetto: «fa il bene ed evita il male» (bonum facendum et malum vitandum).
La legge naturale, in quanto partecipazione formale alla legge eterna, si distingue dal diritto naturale, che ne è una semplice partecipazione materiale.
Questa distinzione porta Tommaso a superare i limiti della tradizione precedente: sostenendo che l’uomo, obbedendo alla legge naturale, si realizza pienamente nella storia e attraverso la storia.
La legge umana costituisce il diritto positivo, la legge promulgata dall’uomo in vista del bene comune.

La seconda partecipazione avviene per mezzo del dono dello Spirito (lex Spiritus): per mezzo di essa l’uomo può con efficacia tendere a realizzare pienamente il progetto di Dio.
La legge dello spirito o la legge nuova del Vangelo è una legge interiore, infusa nel cuore del fedele, che ha come elemento costitutivo il dono dello Spirito Santo con la sua grazia.
Essa è luce, ma anche forza che permette al fedele di realizzare ciò che lo Spirito gli fa capire, cioè la sua vocazione.
In virtù di detta duplice partecipazione, il credente è reso capace di cooperare al progetto di Dio. Detta capacità passa attraverso il giudizio della coscienza, che si definisce come partecipazione della verità umana a quella divina, della conoscenza umana a quella divina.

La coscienza è la terza categoria fondamentale della riflessione morale di Tommaso.
La sua dignità consiste nel fatto che essa è elemento insostituibile della persona umana alla realizzazione del progetto di Dio. Per Tommaso solo l’atto che è emesso dall’interiore principio conoscitivo, cioè la coscienza, è personale.
Il fondamento della dottrina di Tommaso sulla coscienza è:
- la partecipazione,
- il modo con cui questa si realizza nella soggetto.
Ne segue che il giudizio di coscienza è criterio irrinunciabile dell’agire umano, tuttavia non è norma assoluta.
Non sono criteri morali decisivi né l’efficacia storica, né ragioni ideali e astoriche.

A questo punto si può dire che per Tommaso i due elementi fondamentali dell’elaborazione morale sono la legge e la grazia.
L’uomo trova le regole dell’agire morale nella propria natura razionale, sia:
- come persona,
- come membro di una famiglia
- come essere sociale.
Le leggi umane, poi, precisano i principi generali della legge naturale.
La ragione deve stimolare l’ingegno umano affinché produca i complementi e i supplementi utili alla natura umana.

Alla produzione degli atti umani concorrono diversi principi, che sono interni ed esterni.
I principi interni, che aiutano le facoltà a rendere più facile e perfetta la produzione degli atti, vengono definiti da Tommaso "abiti", che ha il senso di qualità operative, inteso in senso lato:
- abiti buoni son le virtù alle quali sono legati i doni,
- abiti cattivi sono i vizi che si oppongono alle virtù.
La virtù è un abito operativo buono e principio esclusivo di bene. Vi sono virtù teologali o infuse e quelle cardinali o morali. Inoltre ci sono le virtù intellettuali speculative, le quali tendono a perfezionare la mente perché possa apprendere la verità. Esse sono: intelligenza, scienza, sapienza e prudenza.
Tommaso articola la teologia morale sulle virtù teologali (fede, speranza e carità) e su quelle cardinali (prudenza, fortezza, giustizia, e temperanza), tra le quali la prudenza ha un ruolo molto importante.
L’Aquinate ha senz’altro mutuato da Aristotele molti elementi della sua elaborazione morale, per esempio l’adozione dello schema delle quattro virtù cardinali, ma li trasforma facendo derivare la sua vitalità dai doni dello Spirito Santo.
Tuttavia l’assunzione dello schema delle virtù cardinali ha impedito a Tommaso di sviluppare adeguatamente le virtù della religione e dell’umiltà, fondamentali per l’uomo redento.
L’esistenza cristiana, in quanto ha come legge propria la legge dello Spirito di vita in Cristo, va considerata non come obbedienza a dei precetti, ma come attuazione delle potenze interiori che essa ha e che sono le virtù.
Esse sono mezzi per l’autorealizzazione umana, orientamenti verso la perfezione morale in senso teologico.

Oltre agli abiti virtuosi, che fanno tendere l’uomo al bene, ci sono gli abiti cattivi, i vizi (orgoglio, cupidigia, vanagloria, invidia, collera, avarizia, accidia, gola e lussuria), che lo distolgono dal bene. Essi, secondo Tommaso, sono le principali cause del peccato.
Agostino così definiva il peccato: «est aliquid factum, vel dictum, vel concupitum contra legem eternam». Tommaso ne raccoglie l’eredità. Li distingue però in peccati veniali e mortali.
Misura della perfezione è la carità afferma Tommaso. Tutte le altre virtù sono necessarie alla perfezione, ma non ne sono costitutive come la carità, che ha la caratteristica di unire a Dio. Essa è la più importante di tutte le virtù e senza di essa non v’è vita virtuosa.
Si può allora affermare, senza timore di essere smentiti, che il criterio ultimo e definitivo è l’acquisizione progressiva della carità. Alla sua acquisizione concorrono: la grazia, i sacramenti, la devozione a Cristo, la preghiera.
La morale di Tommaso è l’elaborazione più completa che sia stata mai tentata.

La grandiosa sintesi operata da Tommaso non ebbe uno sviluppo adeguato nei secoli successivi. Ebbe più successo Guglielmo di Ockham (1280-1349).
Due eventi segnarono profondamente la riflessione teologico morale nel prosieguo della storia della chiesa:
- Il concilio lateranense IV (1215) voluto da Innocenzo IV (papa dal 1243 al 1254) che stabilì l’obbligo della confessione annuale.
- La condanna di alcune tesi tomiste pronunciate dall’università di Parigi e di Londra e dall’autorità pontificia.
Il secolo XIV si espande all’ombra delle molte condanne e dell’aristotelismo e del tomismo e delle polemiche tra tomisti e scotisti. Tutti questi motivi portarono alla caduta di quella tensione creativa che aveva caratterizzato il duecento.
Emerge lentamente la corrente definita umanesimo, la quale collocherà l’uomo al centro dell’universo in opposizione al teocentrismo medioevale.

LA MORALE DEL PERIODO MODERNO

Introduzione

La grandiosa sintesi operata da Tommaso non ebbe uno sviluppo adeguato nei secoli successivi.
Il trecento risente delle molte condanne delle quali e l’aristotelismo averroista e quello tomista era stato oggetto sia Oxford che a Parigi. Non vanno nemmeno taciute le violente polemiche tra tomisti e scotisti.
Si comprende così la caduta della tensione creativa che aveva caratterizzato il sec. XIII e la crisi che aveva attanagliato la ragione e la filosofia, spesso logori strumenti di vuote dispute.
Il dualismo tra teologia e filosofia, che Duns Scoto (1265-1308) aveva accentuato a vantaggio della prima, nel corso del sec. XIV si divarica ulteriormente.
Si avverte la necessità di elaborare una nuova sintesi fra tradizione, cultura e spiritualità. Si tratta dell’umanesimo, che teorizza la collocazione dell’uomo al centro dell’universo, la sua ribellione, affermazione e sviluppo, in opposizione al teocentrismo medioevale (antropocentrismo).
In questo secolo si assiste ad una elaborazione della morale che parte da premesse opposte a quelle dell’Angelico. Questo periodo viene giudicato come un tempo di decadenza a causa dell’esito nominalista che essa ha perseguito.
Il motivo di un tale giudizio negativo sta nel fatto che il pensiero della tarda scolastica riconosce un crescente dominio della volontà sulla ragione, il che porta ad un crescente dissidio tra fede e ragione.
La preminenza accordata alla volontà ebbe contraccolpi devastanti per la scienza morale, perché la teoria sorta da tale principio il volontarismo o nominalismo ha originato l’affermarsi della concezione positivista della legge. La legge non è più fondata sulla natura umana, ma viene dedotta dalla volontà positiva di Dio. Non deducibile assolutamente in modo razionale. E’ da questa teoria che origina la concezione obbligazionista della morale, con il risolvere tutto il discorso morale sulla cifra della legge. E l’inizio della cosiddetta riflessione morale moderna.
Gli studi recenti hanno messo in luce valide ragioni per riconoscere al pensiero della tarda scolastica una sua oggettiva consistenza.
I maestri francescani, il cui pensiero ha caratterizzato l’inizio dell’era moderna, compiono un evidente sforzo di riflessione sulla libertà e sull’unità dell’anima che va al di là della molteplicità delle varie facoltà umane.
Tale riflessione sulla libertà costituisce la caratteristica decisiva per comprendere la novità cristiana rispetto alla tradizione filosofica del tempo. E’ grazie al cristianesimo che si afferma quell’idea di libertà che sarà destinata a divenire centrale nella cultura moderna.
Il problema fondamentale della riflessione morale postockhamista non è più il fine ultimo, ma la risposta alla domanda: questo atto è lecito o proibito?
Una simile svolta subita dalla problematica morale è segno e causa di una concezione della coscienza frazionata in tanti atti, i quali vengono tenuti assieme solamente da una neutrale identità del soggetto. Bontà o cattiveria sono qualità dell’agire di una persona e non del suo essere.
L’ockhamismo è il nuovo modo, la via moderna della riflessione morale perché critica la tradizione scolastica. Nonostante vari divieti e condanne, questo cominciò ad emergere intorno al 1340 e conquistò la volontà dei più celebri studiosi sia di Parigi che di Oxford.
Un evento di grande importanza per la teologia morale fu anche il Concilio Lateranense IV (1215) tenuto sotto il pontificato di Innocenzo III (papa dal 1198 al 1216). Esso impresse uno slancio vigoroso alla teologia morale pratica con il decreto Omnis utriusque sexus che imponeva a tutti i fedeli, appena raggiunto l’uso di ragione, l’obbligo della confessione annuale delle colpe gravi da farsi ad un sacerdote.
Dopo il Concilio, per formare i sacerdoti all’ascolto delle confessioni si iniziarono a comporre le cosiddette Summe per i confessori. Così accanto a Summe per gli alunni delle università si pubblicano Summe per i meno provveduti e meno fortunati.
Le Summe per confessori erano trattati giuridici di morale, che permettevano al confessore di giudicare esattamente gli atti di cui ricevevano la confessione e proporre così penitenze adatte.
La Summa più famosa di questo periodo è senz’altro quella scritta da S. Antonino da Firenze (1389-1459) che porta il titolo di Summa Sacrae Theologiae. Essa è di grande interesse dal punto di vista storico perché per la prima volta siamo di fronte ad una trattazione di argomenti morali abbastanza completa, a sé stante e separatamente dalla teologia dogmatica. Essa fu denominata per la prima volta Summa moralis.
Le somme per confessori diventano sempre più opere di riferimento e di insegnamento. Esse sono sempre più correlate da un gran numero di autorità di ragione e di leggi positive ed ecclesiastiche. Vi domina la casistica atta a capir sempre meglio se un atto è legale o contro la legge.
La morale delle Somme è definita morale minimalista o morale del lecito e dell’illecito. Le Somme hanno senz’altro favorito l’affermarsi della casistica, ma hanno fatto emerge la personalità del singolo cristiano, la quale si manifesta nella responsabilità della sua condotta.

Quattro eventi caratterizzano il sec. XVI: l’umanesimo, la colonizzazione dell’America, la riforma protestante e il Concilio di Trento.
L’umanesimo propone il ritorno all’antichità pagana, ma anche alla Bibbia e ai Padri. L’interesse si concentra tutto sull’uomo e sulla vita civile. Da una concezione teocentrica e trascendente si passa gradualmente ad una concezione antropocentrica e immanentista.
La scoperta e la conquista dell’America creò nuovi e importanti problemi politici e religiosi e una nuova immagine dell’uomo. L’estensione del commercio marittimo a dimensione mondiale, l’afflusso di metalli preziosi, il moltiplicarsi delle banche, l’apparizione del primo capitalismo, posero nuovi e numerosi problemi morali.
Completano il quadro l’avvento di Lutero (1483-1546) e la riforma protestante.
Questa fu un movimento spirituale che, pur fondandosi su una visione teologica, predica una morale delle realtà terrene. Essa fu senz’altro una reazione contro l’ottimismo con cui il rinascimento esalta la natura e le forze naturali dell’uomo, oltre che una forte reazione contro abusi introdotti nella chiesa, non ultimo il problema delle indulgenze.
La reazione della chiesa alla riforma protestante si concretizzò con la celebrazione del Concilio di Trento (1545-1563). L’importanza del Concilio per la storia della morale è enorme.
Nel 1551 questi pubblicò un decreto dottrinale e alcuni canoni sul sacramento della penitenza che condannavano la dottrina protestante. Con il suddetto decreto il Concilio esigeva l’integrità, almeno formale, della confessione dei peccati mortali. Il Can. 7 recitava: «per diritto divino è necessario confessare singolarmente tutti i peccati mortali, anche quelli nascosti e che sono contro i due ultimi comandamenti del decalogo, con le circostanze che cambiano la specie».

1. La rinascita tomista

All'inizio del secolo XVI l'università di Parigi è il centro principale dell'attività teologica e morale.
Giovanni Mair (1469-1550) e i suoi discepoli danno «al cattolicesimo nominalista la sua ultima espressione e la sua forma più alta».
Partendo dalla S. Scrittura e dai padri della chiesa i teologi parigini si interessano dei problemi concreti della famiglia, dello stato, dell'economia. Giovanni Mair è il primo che usa l'espressione teologia positiva in contrapposizione a teologia scolastica, per sottolineare il carattere morale e pratico del suo insegnamento.
In questo contesto avviene il passaggio dalle Sentenze di Pietro Lombardo alla Summa Theologiae di S. Tommaso, soprattutto alla I-II e II-II, che tratta esclusivamente di morale.
La rinascita tomista del sec. XVI è soprattutto una rinascita della morale, spesso però separata dai suoi principi fondamentali.Essa è presente, quasi simultaneamente a Parigi, a Colonia con Corrado Koellin, domenicano (m. 1536), il cui Commentario
della I-II spesso si limita ad una analisi sillogistica, in Italia con Tommaso de Vio, domenicano, detto Gaetano (m. 1534), che scrive il primo Commentario completo della Summa Theologiae presentando una magnifica metafisica del dogma e della morale.
Ma è soprattutto in Spagna, nella scuola domenicana di Salamanca, che il 'modus parisiensis' porta i suoi frutti. Francesco de Vitoria, domenicano, (m. 1546), formatosi a Parigi, nelle sue Relectiones studia la teoria del potere civile ed ecclesiastico, i diritti dell'uomo, cristiano o meno, i problemi coloniali, i rapporti della chiesa e dello stato.
Domenico Soto, domenicano, (m. 1560), ugualmente formato a Parigi, espone i problemi fondamentali della morale nel De natura et gratia, mentre i problemi economici vengono esaminati nel De iustitia et iure.
I commentari della Summa Theologiae si frammentano in grossi trattati indipendenti l'uno dall'altro. Melchiorre Cano, domenicano (m. 1560), presenta nel De locis theologicis[1] un metodo che in parte si applicherà anche alla morale. Facendo ricorso soprattutto alla Scrittura, alla tradizione e al diritto Bartolomeo di Medina, domenicano (m. 1580), imposterà maldestramente il problema del probabilismo, che per più di tre secoli polarizzerà gli sforzi dei moralisti.
Domenico Banez, domenicano (m. 1604), restringe la morale allo studio dei grandi principi, lasciando l'analisi dei casi reali ai teologi di altri Ordini, soprattutto gesuiti, che continuano col metodo inaugurato a Salamanca.
Gabriele Vasquez, gesuita (m. 1604), mette l'accento sulla concordanza della legge morale con la ragione umana, mentre Francesco Suarez, gesuita (m. 1617), insiste sulla necessità del comandamento per dare forza di legge alle ispirazioni della natura. Luigi de Molina, gesuita (m. 1600), tenendo conto dell'economia portoghese e spagnola, scrive il suo famoso De iustitia et iure, mentre Lessius, gesuita (m. 1625), nel suo De iustitia riflette l'economia dei Paesi Bassi spagnoli.
Tommaso Sanchez, gesuita (m. 1610), compone il De sancto matrimonii sacramento e Enrico Henrique, gesuita (m. 1608), il De ordine. Ritroveremo tutti gli elementi di queste opere, ma frammentati, nelle Institutiones morales.

2. La nascita dei sistemi morali

Nel corso del XVI secolo ebbe inizio nel campo della teologia morale una forte crisi dovuta dall’importanza assunta dal rinnovato trattato della coscienza.
E’ a partire dalla coscienza che si può stabilire se l’atto di una persona è buono o cattivo, sia peccato e quindi sia da confessare.
La società del sec. XVI iniziò a porsi molteplici problemi: politici, economici e sessuali, per i quali non potevano bastare le vecchie soluzioni adottate.
La domanda che ci si poneva era: come può un cristiano essere sicuro di aver peccato?
Le varie scuole teologiche rinviano all’insegnamento dei vari dottori, senza formulare un principio generale che permettesse di agire onestamente senza dover ricorrere a elucubrazioni forvianti.
Fu Bartolomeo de Medina nel 1577 a elaborare il seguente principio che segnò l’inizio del cosiddetto probabilismo: «Quando ci sono due opinioni, delle quali una è più probabile e l’altra semplicemente probabile, è permesso seguire quest’ultima». Egli definiva così il concetto di probabile: «E’ un’opinione basata su buoni argomenti o proposta da autori seri, che si può seguire senza rischio di peccato».
Criterio decisivo non è la verità, bensì la sicurezza morale della coscienza, la quale è data dall’opinione probabile, tuttavia non si è tenuti a cercare la sicurezza maggiore.
Il principio che fu definito probabilismo ebbe immediato successo, perché permetteva di uscire dal dubbio e di agire con coscienza retta.

3. Institutiones morales

Nel 1551 il concilio di Trento aveva pubblicato un decreto dottrinale e alcuni canoni sul sacramento della penitenza che condannavano la dottrina protestante. Il concilio esigeva l'integrità, almeno formale, della confessione dei peccati mortali[2].
Le prescrizioni del Concilio richiedevano, non solo da parte dei penitenti, ma anche da parte del confessore, una buona conoscenza della morale casistica.
Si sentì subito la necessità di attivare un insegnamento morale adattato ai bisogni della pastorale del sacramento della penitenza preconizzata dal concilio.
Al più lungo ciclo di studi delle università bisognava affiancare un ciclo corto, il cui nucleo essenziale sarebbe stato l'insegnamento dei «casi di coscienza».
S. Ignazio di Loyola (1491-1556) e il cardinale R. Pole furono, in materia, dei precursori. Nel 1563 il concilio di Trento decretò la fondazione dei seminari per la formazione del clero. Nel programma proposto le questioni pratiche erano al primo posto: «Si insegnerà, decreta il Concilio, tutto ciò che sembrerà. opportuno per amministrare i sacramenti, e soprattutto per ascoltare le confessioni».
D'ora innanzi lo studio della teologia morale, o meglio dei casi di coscienza, sarà esclusivamente, orientato a preparare i preti ad esercitare con frutto il ministero del sacramento della penitenza. Nello stesso tempo anche al di fuori dei seminari si moltiplicheranno i corsi di «casi di coscienza». Nei seminari sarà il secondo biennio quello consacrato allo studio di essi.
Ma quali manuali utilizzare in questi corsi?
Le Somme per i confessori, specialmente le Somme alfabetiche, presentavano numerosi inconvenienti soprattutto di carattere pedagogico; si sentiva il bisogno di un piano organico di teologia morale, ma anche di un libro di testo. Nel corso della seconda metà del sec. XVI furono stampati saggi parziali composti da diversi autori, soprattutto gesuiti.
Solo nel 1600 Giovanni Azor, gesuita, (m. 1603) pubblicò il primo volume delle sue Institutionum moralium (Liber) in quibus universae quaestiones ad conscientiam recte aut prave factorum pertinentes breviter tractantur.
Qual è il piano adottato dalle Institutiones morales, che ben presto si intitoleranno semplicemente Theologia moralis?
La I-II della Summa theologiae di S. Tommaso fornirà il quadro della prima parte. Bisognerà tuttavia sopprimere due trattati detti speculativi, quello del «fine ultimo», che in S. Tommaso comandava tutto lo sviluppo della morale ma che non poteva servire per i penitenti, e quello de gratia, di cui non si vedeva l'utilità pratica e che si lasciava alle discussioni dei teologi. Si metteva al primo posto il trattato sulla coscienza.
Per 'casi di cososcienza' si intendevano non solo i diversi fatti sui quali il sacerdote, come giudice, doveva formulare un giudizio, ma tutta la condotta morale, che è determinata dal giudizio della coscienza.
Nei capitoli successivi si raggrupperanno gli elementi tecnici utili per conoscere i casi di coscienza, lasciando da parte qualsiasi questione speculativa sugli atti umani, le passioni, gli habitus, le virtù, i peccati, la legge.
Se il quadro era quello della Summa theologiae di S. Tommaso, il contenuto e lo spirito ne differivano profondamente.
La morale speciale si articola attorno al decalogo, che nelle Somme per i confessori serviva a preparare l'interrogatorio dei penitenti; le virtù teologali (fede, speranza, carità) sono considerate come un preambolo al decalogo.
Avendo S. Tommaso interrotto la Summa Theologiae al trattato sulla penitenza, ci si riferirà al IV libro delle Sentenze di Pier Lombardo per la parte destinata ai sacramenti, facendo però astrazione da qualsiasi elemento dogmatico.
Completano, infine le Institutiones morales i trattati sulle censure, di cui oggi non riusciamo più a cogliere l'importanza che avevano nella vita dei cristiani di quel tempo, e quello sugli stati di vita, estratto dall'ultima parte della II‑II.
Era nato un nuovo genere letterario di teologia morale, la cui produzione continuerà praticamente fino ai nostri giorni.
Caratteristica principale dell’Institutiones morales è il primato del diritto. Da una parte la presentazione casistica della morale a partire dalle categorie del lecito e dell'illecito, del comandamento e del consiglio, apriva facilmente l'accesso al diritto.

Dall'altra numerose leggi canoniche obbligavano in coscienza e bisognava tenerne conto nella pastorale del confessionale. Inoltre, mancando nei collegi fondati dai gesuiti o in altri l'insegnamento del diritto canonico, toccava alla morale colmare la lacuna.
Il trattato più importante della morale fondamentale è quello della coscienza. A partire da questo trattato si può stabilire se nell'azione c'è o non c'è una colpa che bisognerebbe accusare in confessione.
Qui si introduce il probabilismo e i diversi sistemi di teologia morale.
Per sistema morale si intende le varie dottrine morali delle varie scuole teologiche sulla formazione dei giudizi di coscienza, quando chi deve o vuole agire si trova di fronte a leggi che appaiono oggettivamente incerte.
I sistemi morali più noti sono sette: tuziorismo assoluto, tuziorismo mitigato, probabiliorismo, compensazionismo, equiprobabilismo, probabilismo, lassismo.
I primi quattro sistemi hanno come principio fondamentale: «nel dubbio si deve stare per la parte più sicura». Gli ultimi tre sistemi sono più sensibili alla soggettività e si distinguono per le opposte probabilità.
L’equiprobabilismo è una variante del probabilismo. Esso assume il principio che la legge dubbia non obbliga, per sostenere che il dubbio cessa solo quando la legge ha in suo favore un’opinione certamente più probabile che l’opposta in favore della libertà.
Dei sette sistemi enucleati, i due estremi, il lassismo e il rigorismo furono condannati da Alessandro VIII (1689-1691), rimasero vivi solo il probabilismo e il probabiliorismo e la variante di questo l’equiprobabilismo.

4. Il secolo XVIII

Il sec. XVIII non conobbe molti grandi teologi moralisti. In Italia emerge soprattutto il domenicano Domenico Concina (m. 1756) che si segnala per il suo antiprobabilismo nella monumentale Storia del probabilismo (1748). La sua opera più importante è la Theologia christiana dogmatico-moralis in 10 volumi, cui ne vanno aggiunti altri due di Apparatus (1749‑1751).
Il metodo proposto dal Concina è molto interessante e si basa sullo studio della Scrittura e dei padri. La morale è l'imitazione di Cristo proposta dal Vangelo.
Il Concina, però, non ha applicato fedelmente il suo metodo. La sua teologia morale è «una specie di contro casistica, il cui dettaglio non è inferiore in niente ai modelli precedenti».
Per quanto riguarda il probabiliorismo, Concina propone di seguire sempre l'opinione che è la più vicina alla verità.

5. Sant’Alfonso M. De’ Liguori (1696-1787)

Nacque a Napoli nel 1696 e morì a Pagani nel 1787. Si laureò nel 1713 in utroque iure all’università di Napoli. Esercitò l’attività forense fino al 1723, allorché, sconfitto in un clamoroso processo, vestì l’abito ecclesiastico, avviandosi al sacerdozio, che ricevette nel 1726.
Fondò la Congregazione dei Redentoristi. Nel 1762 fu eletto vescovo di Sant’Agata dei Goti. Nel 1775 diede le dimissioni e si ritirò a Pagani tra i suoi figli. E’ dottore della chiesa dal 1871.

La sua produzione letteraria ha avuto una fortuna immensa. Le sue opere principali sono: Pratica di amare Gesù (1768), Teologia morale (1748), Pratica dei confessori (1757), Le glorie di Maria e molto altro.

Egli pone come principio guida della vita cristiana l’universale chiamata alla santità, ognuno nel suo stato. Colui che non ha nel cuore la voglia di farsi santo non è un buon cristiano.
I mezzi pratici per raggiungere la santità sono: la mortificazione, la pratica sacramentale e l’orazione mentale. Vero dottore pratico vuole soprattutto scuotere e illuminare le coscienze per spingerle all’azione. Propone una religione viva, umana, austera sì, ma senza esagerazioni.
Il sistema elaborato da Sant’Alfonso è l’equiprobabilismo, soluzione saggia, in equilibrio tra il lassismo e il rigorismo. Egli ammette che una legge dubbia non obbliga e si può seguire un’opinione probabile, ma aggiunge che una legge non è veramente dubbia se non quando le opinioni pro e contro abbiano una probabilità sensibilmente uguale.
Il sistema alfonsiano si articola in tre principi:
- Il principio della verità,
- I doveri della coscienza che non possono affidarsi ciecamente alle opinioni del moralisti,
- I diritti della libertà umana che possono essere vincolati solo da una legge certa.
Sant’Alfonso si sforza di salvare le esigenze della verità, rispettando nel contempo i diritti della coscienza e i principi della libertà umana, tenendo il giusto mezzo, facendosi guidare non da principi astratti, ma da esigenze che nascono dall’azione pastorale.
L’agire morale si fonda primariamente sulla verità. Il soggetto agente è sempre obbligato a ricercarla. Se non è possibile arrivare ad una certezza assoluta, bisogna almeno cercare di avvicinarsi alla verità il più possibile.
Il soggetto agente non deve agire secondo norme esterne e automatiche, ma deve interiorizzare e personalizzare la legge. La ragione e la coscienza, se agiscono sotto l’influsso della prudenza, diventano norme prossime all’agire.
La libertà della persona è vincolata solo nel caso che una legge particolare, dettata o dalla ragione o dalla rivelazione divina, gli manifesti la volontà di Dio con una certezza o in un modo almeno più probabile (probabilior). Solo allora il soggetto agente deve in coscienza agire sicuramente secondo questa legge.
Tuttavia nell’insieme della morale di Alfonso lo studio delle circostanze concrete prevale sempre sull’applicazione meccanica di un sistema, per quanto giusto questo possa essere.

Gli apporti originali di Alfonso alla Teologia morale sono stati:
- Trasmette il frutto della sua opera missionaria, che consiste nel ribadire, contro il giansenismo, che Cristo è il redentore la cui efficacia redentrice è infinita;
- Esaminando alla luce della ragione e sotto l’illuminazione della prudenza varie opinioni, ha costruito un sistema di principi che è espressione sia delle esigenze del Vangelo, sia quelle della libertà della coscienza umana;
- Per i casi di coscienza espose il suo personale parere, impegnandosi in una ricerca interiore e oggettiva della verità e mettendo a profitto la sua eccezionale acutezza, sapienza e prudenza;
- Ad ogni problema morale seppe dare una risposta sapiente e appropriata, che soprattutto non scoraggiasse i deboli, ma neppure scandalizzasse i ferventi.

L’intento di Alfonso fu quello di formare bravi pastori d’anime, confessori e direttori spirituali, più che elaborare un trattato completo di teologia morale, che tuttavia definiva come la «scienza delle scienze» e «arte delle arti».
Egli ha sottolineato e chiarito aspetti della Teologia morale che non potranno essere mai disattesi. I principali sono:
- Una sapiente preoccupazione pastorale per applicare i principi generali ai casi concreti: la scienza morale benché situata su un piano speculativo e universale, ha lo scopo di regolare azioni singole e concrete;
- E’ necessario un grande equilibrio nel delimitare il lecito dall’illecito: compito al quale la Teologia morale non deve mai rinunciare, perché l’uomo che essa intende condurre alla perfezione e alla santità è pur sempre un peccatore che ha bisogno di essere delimitato.

La grandezza di Alfonso non va ricercata nella forma e organicità del disegno generale, che anzi mutua dalle Institutiones morales e cioè:
- La regola degli atti umani,
- I precetti delle virtù teologali,
- I precetti del decalogo e della Chiesa,
- I precetti particolari,
- Il modo di conoscere e discernere i peccati,
- I sacramenti,
- Le censure ecclesiastiche e le irregolarità.
La sua grandezza va ricercata nella profondità e limpidezza del contenuto: in lui si avverte chiaramente l’ispirazione della più pura morale cristiana, cioè una morale intesa come pratica della carità.

La scienza morale deve essere la verità che conduce la persona umana al bene e alla salvezza alla quale è chiamata.

6. La teologia morale dal XIX sec. ad oggi

Il fatto più significativo del sec. XIX fu la diffusione della morale di S. Alfonso de' Liguori. La sua beatificazione (1816) e la successiva canonizzazione (1839) ne imposero la fama e l'autorità.
La risposta della sacra Penitenzieria che permetteva ai confessori «di seguire con sicurezza le opinioni professate dal beato Alfonso de Liguori», elimineranno ogni resistenza.
Infine la sua proclamazione a dottore della chiesa (1871) garantirà la sua superiorità come moralista.
Tuttavia verso il 1870, e fino alla fine del secolo, violente controversie, sempre più sottili, si svilupperanno attorno alla portata esatta del suo pensiero in materia di probabilismo. Ci si può domandare se queste controversie abbiano apportato alcunché di utile alla teologia morale.

I manuali di teologia morale, scritti in latino, utilizzati nei seminari di tutto il mondo, riprendono, con maggior logica e adeguati adattamenti canonici, la dottrina delle Institutiones morales secondo l'ordine del decalogo.
Gli autori si ispirano in primo luogo al sistema alfonsiano o al probabilismo, ma, di fatto, queste opzioni di principio hanno poche conseguenze pratiche.
Infine bisogna sottolineare che i manuali di teologia morale non comprendevano nei loro piani la dottrina sociale della chiesa, che si sviluppa in seguito alla pubblicazione (1891) dell'enciclica Rerum novarum di Leone XIII.

7. La scuola di Tubinga

Durante la seconda metà del sec. XVIII, malgrado il razionalismo e l'idealismo, si nota in Germania un certo cambiamento nel campo della teologia morale. Furono preparati nuovi piani di studio e ci si sforzò di impartire un insegnamento positivo sulle obbligazioni e sulle virtù. Nel fare ciò ci si basò sulla Scrittura, sulle scienze umane e sulla filosofia. In particolare la filosofia di Kant aiutò a riprendere consapevolezza dell'importanza dell'intenzione in morale.
Ma è soprattutto nella prima metà del sec. XIX che in Germania si svilupperà la teologia morale. L'autore più importante è J.M. Sailer (m. 1832).
Nel suo Handbuch der Christlichen Moral egli intende offrire un'esposizione generale della vita cristiana destinata non solo ai preti ma anche ai fedeli. Sailer tenta di riunire nella morale il dogma e l'ascesi. L'originalità di questo autore non consiste tanto nell'essersi egli allontanato da una morale statica e casistica, quanto piuttosto nell'aver adottato una concezione dinamica della morale il cui centro è la carità.
Quella di Sailer è una morale della conversione: l'azione dell'uomo è una risposta alla chiamata di Dio e alla sua grazia. In questo cammino sono integrati organicamente i trattati sui comandamenti, sui doveri, sui peccati, sulle virtù, sui sacramenti.
A questa morale però mancava l'aspetto pratico. I problemi della vita non possono essere risolti con principi generali, che spesso sfociano nel vago.
La Scuola di Tubinga fu il fermento più efficace del rinnovamento della teologia in Germania. Ci si interesserà soprattutto ai lavori storici e dogmatici di J.A. Mohler (m. 1838). Non va però dimenticato che questa scuola si sforzo anche di elaborare una potente sintesi della vita cristiana che prendeva in considerazione l'uomo tutto intero.
La Morale cristiana di J.B. Hirscher (m. 1865) ha come idea centrale lo sviluppo del Regno di Dio nella storia e nell'uomo non solo con la fede ma anche col comportamento.
Tuttavia Hirscher non fornì regole concrete che permettessero di tradurre in pratica la sua grandiosa sintesi. D'altra parte la sua reazione contro la scolastica è spesso ingiusta.
I teologi moralisti della scuola di Tubinga organizzano la loro morale attorno a grandi principi.
Jocham Magnus (m. 1893) vede nella realtà del Corpo mistico di Cristo la norma efficace della vita cristiana.
Martin Deutinger svilupperà un personalismo dell'amore secondo il cristianesimo.
Karl Weber (m. 1888) proporrà una teologia morale espressamente cristocentrica.
Fr. X. Linsenman (m. 1898) fu il continuatore più ragguardevole di Sailer e Hirscher. La sua teologia morale è di ispirazione paolina e mostra chiaramente che se la legge determina il campo delle obbligazioni, l'essenziale della vita morale consiste nella libera risposta alla chiamata di Dio. In tal modo a un metodo speculativo Linsenman associava un aspetto pratico, che permetteva l'applicazione dei grandi principi ai problemi concreti.
In sintesi la scuola di Tubinga faceva appello alla Scrittura, organizzava la sua morale attorno a un principio dogmatico centrale, ma spesso non riusciva a risolvere i problemi concreti.
In Italia l'apporto maggiore per un rinnovamento della morale fu dato da Antonio Rosmini (m. 1855), che però non ebbe grande influenza nel campo della teologia morale.

8. Il rinnovamento tomista

Nel sec. XIX infine si fa luce, specialmente in Germania, un riavvicinamento della morale al pensiero tomista. Tale movimento fu favorito soprattutto dalla condanna di Gunther (DS 1828‑1831).
Tra gli autori che unirono il metodo psicologico della scuola di Tubinga, al concetto tomista di virtù vanno ricordati F. Probst (m. 1899) e il già citato Linsenman.
Tra quelli che si sforzarono di superare la casistica con una ricerca teologico-dogmatica sulla vita spirituale citiamo F. Friedhoff (m. 1878) e J. Schwane (m. 1892).

9. Il secolo XX: dal 1900 al 1930

In Germania, durante il primo ventennio di questo secolo, a proposito della casistica sorgono violente polemiche tra i filosofi, i teologi liberali protestanti e i teologi cattolici.
Il cattolico J. Mausbach tenta una conciliazione tra le opposte tendenze: determinazione dei principi filosofici e antropologici e attenzione alle situazioni particolari.
Si segnalano soprattutto due manuali: Joseph Mausbach (m. 1931) nella sua opera Die Kathelische Moral und ihre Gegner si attiene al piano del decalogo, ma per la morale fondamentale mette in luce il tema della gloria di Dio, completato dal punto di vista antropologico con quello della perfezione dell'essere.
Otto Schilling nel suo Handbuch der Moraltheologie prolunga lo sforzo della scuola di Tubinga. Questi, essendo buon conoscitore di S. Tommaso, assume come principio formale della morale la carità, conservando la divisione fra i doveri verso Dio, verso il prossimo e verso se stessi. Egli inoltre approfondisce gli aspetti sociali della morale cristiana.
I manuali di teologia morale di tipo alfonsiano conoscono numerose riedizioni, integrate semplicemente con gli interventi del Magistero e con le decisioni del Diritto canonico promulgato nel 1917.
Un certo numero di manuali riprende lo schema delle virtù sostituendolo a quello dei comandamenti. Si nota un certo sforzo per una presentazione più personalistica della morale, ma domina ancora la casistica.
Tra questi manuali segnaliamo A.D. Tanquerey, A. Piscetta, O. Prummer, A. Vermeersch e R. Merkelbach.
Nuovi elementi per quanto riguarda la teologia morale fondamentale affiorano in numerose ricerche di filosofia morale.
Queste mettono in luce l'aspetto più positivo della vita cristiana e le riflessioni condotte nel campo della spiritualità, che si afferma come disciplina universitaria.
Numerosi studi su punti particolari di teologia morale compaiono in riviste. Si moltiplicano le ricerche di storia della morale, specialmente attorno alla teologia morale di S. Tommaso d'Aquino (E. Gilson, O. Lottin, Ph. Delhaye).

10. Dal 1930 al 1960

In questi anni la teologia morale subisce l'influenza dei movimenti di pensiero che provengono da altre discipline. Innanzi tutto va menzionato il movimento liturgico, che insiste affinché la celebrazione liturgica esprima la sua influenza anche sull'agire cristiano.
Il movimento biblico, poi, si associa alla liturgia nel mettere in evidenza il valore vitale della Bibbia, che non può essere semplicemente l'oggetto di studi specialistici, ma deve condurre a una vita cristiana più piena.
Infine la cosiddetta «teologia kerigmatica» si orienta non verso questioni dogmatiche astratte, ma verso un impegno nella vita cristiana concreto.
Dal punto di vista dei testi di morale, parecchi teologi moralisti nella scia della scuola di Tubinga, cercano di strutturare una teologia morale positiva della vita cristiana (e non una morale del confessionale) per vedere come debba agire il cristiano per essere fedele alla grazia e all'impegno del suo battesimo.
Specialmente in Germania questo è il tempo delle morali cristocentriche. L'esegeta Fritz Tillmann elabora una teologia morale che è prima di tutto un'imitazione di Cristo.
Anche Tillmann organizzò la sua morale secondo il piano tripartito ereditato da Tubinga ‑ Dio, se stesso, gli altri ‑, ma incontrò grosse difficoltà nel passaggio dalla dottrina dell'imitazione di Gesù all'applicazione ai dettagli concreti della vita.
Altri autori propongono come temi centrali della morale il corpo mistico di Cristo (E. Mersch, La morale del corpo mrstico, 1933), o la venuta del regno di Dio (J. Stelzenberger), o la carità (G. Gilleman, Le primat de la Charité en Théologie morale, 1952). Il manuale di J. Mausbach, Kathlische Moraltheologie, è poi stato intieramente rivisto da G. Ermecke.
Un altro campo di interesse degli studi di teologia morale è riscontrabile nel volume di G. Thils, La théologie des réalités terrestres (1949).
L'importanza allora data all'Azione cattolica, che vuole essere presente in tutti gli ambienti, così come il fenomeno della laicizzazione inducono a cercare il fondamento dell'impegno del cristiano nel mondo, nella vita politica, sociale, economica, familiare.
Un movimento filosofico ispirato dal danese Soren Kierkegaard (m. 1855), insegnava che l'uomo, al di là di ogni legislazione generale, deve rispondere all'appello concreto di Dio in un dato momento: il kairós, il momento salvifico, determina il nostro attuale modo di agire.
Un (certo) esistenzialismo ateo si manifesta anche in J.‑P. Sartre (m. 1980), che si ispira ad Heidegger, Jaspers, Husserl. La guerra del 1939‑1945 ha potuto influire sulla voga dell'esistenzialismo, avendo creato situazioni assolutamente imprevedibili nelle quali l'uomo doveva prendere le proprie decisioni a partire dalla situazione.
Secondo l'esistenzialismo sartriano non c'è né natura umana, né norma concreta assoluta: esiste solo una natura umana esistenziale, relativa al tempo storico. L'uomo, condannato alla libertà, è colui che va facendo se stesso. Con la libertà della propria azione egli crea di volta in volta i valori.
Il Magistero della chiesa con Pio XII e Giovanni XXIII condannò più volte l'esistenzialismo ateo (DS 3918) dal punto di vista morale, in quanto sostiene che le leggi naturali non sarebbero l'espressione di una natura umana e dunque non sarebbero generali, universali, immutabili ma relative alle situazioni.
De Waehlens e G. Marcel hanno tentato di costruire un esistenzialismo cristiano. D'altra parte certe istanze positive dell'esistenzialismo hanno trovato una risposta nella morale cattolica. Teologi moralisti come J. Fuchs hanno visto che la situazione è un elemento essenziale della realtà, e il punto in cui si inseriscono gli elementi generali della legge.
La considerazione della situazione deve intervenire a titolo intrinseco nel giudizio morale.
Il manuale di B. Haring, La legge di Cristo (prima ed. tedesca 1954) può essere considerato come una sintesi dei principi che si andavano esprimendo in numerose pubblicazioni: imitazione del Cristo, regno di Dio, primato della carità. La morale è innanzi tutto risposta dell'uomo alla chiamata di Dio.
Questo saggio di morale positiva incorpora numerosi elementi biblici e ricerche filosofiche, come la morale dei valori o il personalismo, ma non abbandona il piano generale delle Institutiones morales, e talvolta il suo sviluppo è più eclettico che sintetico.
Il grande merito di B. Haring è di avere divulgato a livello di manuali i principali risultati delle ricerche della teologia morale maturate soprattutto in Germania dal 1920 al 1950.

[1] Secondo il Cano i luoghi teologici sono dieci, sette propri: S. Scrittura, Tradizione, la chiesa cattolica, i concili, la chiesa romana, i santi Padri, i teologici scolastici, e tre impropri: le scienze umane, la filosofia, la storia.
[2] Il canone 7, in modo lapidario, precisava: «Per diritto divino è necessario confessare singolarmente tutti i peccati mortali... anche quelli nascosti é che sono contro i due ultimi comandamenti del decalogo, con le circostanze che cambiano la specie» (DS 1707).

martedì 27 aprile 2010

OPZIONE FONDAMENTALE

Introduzione

L’opzione fondamentale è una categoria dello schema personalista che sta ad indicare il comportamento umano responsabile. E’ una categoria decisiva per la riflessione morale.
Certamente la morale non è riducibile all’opzione fondamentale, come fanno alcuni cultori di essa, ma nemmeno può essere sottovalutata detta struttura antropologica.
L’O. F. non si riferisce alle decisioni dell’io periferico (opzioni categoriali), ma è una decisione che ha origine nel centro stesso della persona, dal suo cuore, colto come nucleo della sua personalità.
Si tratta di una decisione fondamentale che condiziona tutte le altre decisioni fondamentali come intenzione di base. Essa si riferisce all’intera esistenza umana. E’ una decisione di tale densità che abbraccia tutto l’uomo e dà senso e orientamento a tutta la sua vita.
Si tratta di una "consegna" radicale e totale: il sì o il no della persona. E’ la decisione che riassume tutta la vita morale di un soggetto.
Essa consiste in una decisione fondamentale di consegna (accettare l’altro = avere fede, fidarsi) o di chiusura (costruirsi la propria storia = orgoglio, egoismo, superbia).
L’O. F. è il fondamento basilare della moralità. Tutto va compreso a partire da essa. Agostino (354-430) e Tommaso (1225-1274) definivano tutto ciò «fine ultimo» che deve estendersi a tutto l’agire morale. Nuova è la forma, che risulta più esistenziale e personale.

1. Opzione fondamentale: decisione nucleare della personalità morale

Abbiamo detto che mediante l’O. F. la persona esprime nuclearmente la decisione totalizzante del suo dinamismo morale.
La riflessione teologico-morale degli ultimi anni ha dato molto rilievo a questa categoria della vita morale.
La si è studiata a partire dai presupposti della filosofia morale razionale, dalla filosofia morale tomista.
Partendo da una considerazione antropologia della decisione umana, dalla prospettiva teologica dell’esistenza umana, dalla visione antropologico-teologica della libertà umana. Non sono mancati studi nei quali si fa il tentativo di una sintesi del tutto.
Si può affermare senza tema di smentita che l’opzione fondamentale è uno dei pilastri su cui è andato costruendosi il rinnovamento della morale, specie nella sua presentazione pedagogica.
Per poter esporre al meglio il significato dell’opzione fondamentale è necessario far riscorso a diverse prospettive scientifiche. Mi limito ad esporre tre orientamenti giudicati i più importanti: il punto di vista antropologico, la considerazione teologica e la dimensione morale.

1.1. Antropologia dell’opzione fondamentale

Per cogliere al meglio il significato dell’opzione fondamentale bisogna considerare il livello dinamico della persona, cioè la sua capacità di prendere delle decisioni. Infatti la vita di una persona è caratterizzata dal’essere "una scelta", una "vocazione".
Osservando la vita umana da un punto fenomenologico costatiamo che essa è chiamata a prendere una grande diversità di decisioni o scelte, che possono essere superficiali, periferiche, ma anche nucleari e profonde.
Analizzando "il mondo delle decisioni umane", la psicologia del profondo ha messo in evidenza importanza che hanno nella struttura della personalità le cosiddette «scelte fondamentali» o «progetti generali di vita».
Gli atti umani acquistano significato proprio attraverso le decisioni fondamentali. Le decisioni umani dipendono spesso da altre decisioni più radicali.
«E’ possibile ricostruire catene di deliberazioni che sboccano, alla fine, in una scelta originaria. Questo dinamismo operativo è quello che veramente fa l’uomo e determina la sua personalità. Si comprende, dunque, perché non è possibile affermare che un uomo è buono o cattivo, stabilendo una specie di contabilità delle sue azioni buone e cattive, per offrire poi il saldo di quelle che prevalgono. Solo la scoperta delle catene delle sue motivazioni, sino a giungere al motivo fondamentale del suo agire, può servire per qualificare la persona umana».
Ne consegue che si può considerare il significato antropologico dell’opzione fondamentale asserendo che «rappresenta l’orientamento, la direzione di tutta la vita verso il fine».
La nozione antropologica dell’opzione fondamentale deve essere rapportata al senso più profondo della libertà umana. Essa si realizza attraverso ciò che alcuni teologici morali definiscono «libertà fondamentale» e altri «libertà trascendentale».
Se poi poniamo il punto di partenza nella prospettiva della «psicologia della decisione» e della «psicologia dell’identità», l’opzione fondamentale costituisce l’espressione più qualificata dell’integrazione personale e della maturità psicosociale.
Secondo i fautori dell’opzione fondamentale l’uomo ha una capacità di decisione nucleare che si va sviluppando nella singolarità dei diversi comportamenti.
Essa, anche se non viene del tutto compromessa da un atto singolo, si incarna progressivamente nelle decisioni categoriali. Può essere modificata, approfondita e può perfino essere sostituita nel corso della vita.

1.2. Teologia dell’opzione fondamentale

La riflessione teologica studia il tema dell’opzione fondamentale a partire dai seguenti presupposti teologici:
- Essa è la grande possibilità (grazia) che Dio concede all’uomo perché possa realizzare la sua pienezza di senso;
- Attraverso del concetto di essa la teologia esprime il senso dinamico dell’esistenza cristiana.
Si tratta di due angoli di visuale che la riflessione teologica attuale utilizza per esprimere il concetto e la realtà dell’opzione fondamentale.

1.2.1. Opzione fondamentale come possibilità offerta da Dio

La teologia attuale stabilisce uno stretto legame tra l’opzione fondamentale e il dono della grazia. In ogni uomo c’è la tensione profonda a realizzare la propria pienezza di senso, cioè porta impresso nel più profondo del suo io un desiderio di infinito.
Tuttavia sperimenta che detto desiderio non può essere colmato a partire dai presupposti delle possibilità umane e quelle offertegli dalla storia concreta dell’umanità. Questo il vero dramma dell’umanità!
«Per l’uomo ha scarso valore fare molte cose, se non può realizzarsi in un’opzione fondamentale che orienti l’impulso originale della sua natura verso l’infinito di Dio. La sua interiore antinomia costituzionale, con la quale si trova aperto all’infinito senza poterlo mai raggiungere, lo situa certamente nel nobile ambito della libertà, ma lo agita anche in modo drammatico e lo muove in continua ambiguità finché Dio non esca ad incontrarlo e l’uomo lo accolga nell’obbedienza della fede».
La "grazia" dell’opzione fondamentale cristiana ha luogo quando Dio si offre all’uomo come autentico orizzonte della sua realizzazione, e quando l’uomo decide liberamente di porsi in questo ambito di riferimento.
E’ ovvio che l’ambito di accoglienza e di realizzazione dell’uomo va inteso come possibilità che Dio offre in Cristo Gesù conosciuto per mezzo dello Spirito Santo nella chiesa.
In altre parole si può dire che l’opzione fondamentale si identifica con la scelta del vivere cristiano: un vissuto in relazione amorosa con Dio, un vissuto nella conformazione a Cristo e con la forza dello Spirito Santo.
Con l’opzione fondamentale cristiana si verifica ciò che già Paolo aveva esperito quando affermava: «Non vivo più io, è Cristo che vive in me» (Gal 2.20).
Ne consegue che si può affermare senza tema di essere smentiti che la teologia dell’opzione fondamentale si identifica con la teologia dell’esistenza cristiana.
Nella riflessione teologica classica si usava l’espressione "teologia della grazia». Oggi si suole parlare di antropologia teologica.

1.2.2. Opzione fondamentale e impegno cristiano

La seconda prospettiva adottata dalla riflessione teologica attuale nel considerare l’opzione fondamentale è di carattere più dinamico.
Ne consegue che l’opzione fondamentale cristiana è la struttura o la forma che la decisione nucleare della persona adotta nel momento in cui decide di dare a se stessa la pienezza di senso.

1. Assumendo questo principio l’opzione fondamentale si identifica chiaramente con la carità, perché essendo essa una decisione nucleare del cristiano non può che essere l’orientamento radicale verso Dio.
Detto orientamento non è altro che la decisione di vivere in continua relazione d’amore con Dio.
La tesi della teologia classica che affermava essere «la carità forma di tutte le virtù» e quella più recente del «primato della carità in teologia morale», possono avere una versione più personalista nella formula: l’opzione fondamentale cristiana può essere definita come la decisione nucleare dell’esistenza cristiana e che i comportamenti o le decisioni categoriali o regionali non sono altro che sue mediazioni.

2. L’opzione fondamentale può essere espressa anche con la categoria della fede. Nel senso che l’opzione fondamentale non è altro che la radicale accettazione di Cristo come colui che è indica il nucleo della comprensione e della realizzazione di ogni uomo e donna.
Oltre alle categorie teologiche di carità e fede, ci sono molte altre forme che spiegano al cristiano il significato dell’opzione fondamentale.
Nel NT si trovano espressioni che sono valide per indicarne il significato e promuoverne la pedagogia. Esse possono essere riassunte nelle forme espressive seguenti:
- Identificazione con l’agire di Cristo: «Se il grano di frumento non cade in terra e muore, resterà solo: ma se muore porterà molto frutto» ( Gv 12,24).
- Accettazione delle «condizioni della sequela di Cristo».
- Scelta radicale tra Dio e il denaro.
- «Vendendo tutto» pur di poter ottenere la perla trovata o poter seguire Cristo.
E’ insito nell’opzione fondamentale l’esigenza di un cambiamento radicale nel modo di intendere e di realizzare la propria esistenza. Secondo il Vangelo vuol dire perdere la propria vita (proesistenza) per dedicarla agli altri, come verifica concreta dell’apertura a Dio e a Cristo.

1.3. L’opzione fondamentale categoria morale

Dopo aver analizzato il contenuto antropologico e teologico dell’ O. F. è importante comprendere la funzione che essa deve svolgere come categoria per il vissuto morale cristiano.
Ci si riferisce in modo particolare alla dimensione propriamente morale di essa e alle possibili applicazioni in campo formativo.

1.3.1. L’opzione fondamentale canale di vita morale

Partiamo dal principio che l’O. F. è l’espressione più importante della vita morale cristiana.
Mediante essa, infatti, la persona esprime in modo nucleare la sua moralità, cioè il dinamismo morale della sua vita in quanto soggetto responsabile.
Sia la riflessione teologica che l’insegnamento magisteriale fondamentale ha per comprendere la vita morale del cristiano.
Ecco di seguito le possibili applicazioni:
1. L’O. F. è una categoria che fa riferimento sempre al comportamento umano, in ciò che dice rapporto all’intenzione dell’agente. Sia la nozione che i termini esprimono la carica intenzionale dell’O. F.. Ne consegue che sia il significato che la funzione di detta categoria va letta entro l’orizzonte dell’intenzione morale.
2. L’O. F., colta in detto orizzonte, esprime in modo adeguato l’intenzione globalizzante che accompagna ogni comportamento morale. Si tratta senz’altro di una formulazione nuova rispetto al concetto di fine ultimo, elaborato dalla tradizione agostiniana e tomista. Così come detta tradizione intendeva il fine ultimo come l’intenzione globale che si concretizzava negli atti umani globali, allo stesso modo l’O. F. viene intesa come intenzione nucleare che si concretizza in atti categoriali.
3. L’O. F., in quanto orientamento o intenzione nucleare, non si può dare senza gli atti categoriali. Esso è l’aspetto "trascendentale" del comportamento morale che necessariamente si invera in contenuti categoriali. In altre parole essa è «l’intenzionalità inerente alla libertà fondamentale che impone di incarnarsi in azioni libere concrete». Ne consegue che l’O. F. non può essere intesa come qualcosa di autonomo e senza riferimenti alla concretezza delle azioni morali.
4. Se l’O. F. va riferita in modo dialettico ai comportamenti morali concreti, cioè nella dialettica tra intenzione e oggettività, e dentro l’orizzonte di significato espresso dalla intenzione nucleare e globalizzante, allora il suo impiego nella riflessione teologico-morale offre notevoli vantaggi per formulare in modo adeguato il contenuto dell’intenzione del soggetto agente, colto come fattore determinante della moralità.
I vantaggi possono essere i seguenti:
- Aiuta il soggetto a vivere in modo più cosciente le sue decisioni morali;
- enfatizza l’unità della vita morale;
- dà maggiore rilievo all’aspetto dinamico e personalizzante della morale;
- aiuta anche l’impostazione di alcuni temi di morale pastorale;
- si può intendere meglio l’incidenza della carità, della grazia e della fede nella vita morale del cristiano.
5. Una falsa concezione dell’O. F. può indurre a pericoli che possono essere ridotti ai seguenti:
- Se si intende l’O. F. senza far riferimento alla oggettività dell’azione morale può favorire un falso intenzionalismo o un vuoto soggettivismo.
- Rendere l’O. F. una realtà autonoma e non riferita in modo essenziale ad atti concreti e particolari, sostenendo che questi non hanno sufficiente forza per trasformare l’intenzione generale del soggetto.
Si tratta di due pericoli che insidiano l’intenzione morale. L’O. F. non viene relazionata in modo dialettico alla oggettività morale per cui rimane senza riferimento alla singolarità degli atti.

1.3.2. Interrogativi morali e pedagogici sull’O. F.

In quale età si può emettere l’O. F.?
Nella morale tradizionale si insegnava che il bambino, raggiunto l’uso di ragione, può orientarsi verso il fine ultimo, perché non può rimanere indifferente ad esso.
Da questa affermazioni venivano dedotte varie applicazioni pastorali: la possibilità del peccato e al confessione del bambino.
Credo che queste convinzioni debbano essere rivisitate a partire dalla psicologia e affini. Infatti, visto che l’O. F. è una decisione totale della persona, essa può essere emessa solo da chi ha raggiunto una sufficiente maturità psicologica.
Dovendo dare una risposta precisa alla domanda suddetta, si può ipotizzare quanto segue:
- In forma normale e evidente l’O. F. si può far coincidere con la «crisi della personalità» che ordinariamente avviene nell’adolescenza. Detta crisi psicologica avviene nel trapasso di una vita sotto il segno del «super-io», ad una vita «individualizzata». In essa si avverte una profonda crisi religiosa e morale: è questo il tempo propizio per l’O. F..
- Comunque essa va predisponendosi fin dai primi anni dell’infanzia e quindi, essendo anni che condizionano l’O. F., devono essere riferiti ad essa.
Ciò non vuol dire che nel bambino non ci sia responsabilità. Essa c’è nella misura della sua crescita.

Come si verifica l’opzione fondamentale?
L’O. F. non è un atto esplicito, ma implicito. Essa è la decisione con la quale l’uomo determina liberamente e radicalmente il suo rapporto con il fine ultimo, disponendo totalmente di se stesso. Detta decisione e disposizione di se stesso non viene fatto con un atto esplicito e riflesso, ma implicitamente nei singoli atti. Questa operazione è cosciente e libera , ma non riflessa.
L’uomo in ogni comportamento morale non solo sceglie esplicitamente e riflessivamente questo o quel valore categoriale, ma in modo non riflesso impegna la sua O. F..
Questo può accadere:
- sia che faccia la sua prima opzione fondamentale o il suo primo atto morale;
- sia che rinnovi una opzione fondamentale già esistente,
- sia mutando la precedente opzione in una contraria.
Inoltre ogni comportamento morale si esplicita secondo i seguenti due aspetti:
- la particolarità: creata dall’orizzonte del valore morale categoriale;
- l’universalità: la scelta del fine ultimo che viene fatta coscientemente, anche se non è necessariamente riflessa, attraverso il valore categoriale.

1.4. Radici storiche e dottrina della chiesa

Per maggiore chiarezza di quanto detto mi permetto di aggiungere quanto segue:
- un riferimento alla tradizione teologica,
- un analisi del magistero recente sul tema dell’O. F..

1.4.1. L’O. F. nella tradizione teologica

Benché l’uso dell’espressione O. F. e la riflessione su di essa sia di uso recente in teologia morale, il suo contenuto, però, può essere rinvenuto in tante tematiche della tradizione teologica classica.
Non sono mancati studi che hanno messo in evidenza le redici storiche dell’O. F.. Possono rinvenirsi elementi:
- Nelle seguenti riflessioni di Agostino: interpretazione esistenziale della vita cristiana, senso di profondità e di orientamento fondamentale nel vissuto cristiano, esigenza di costante conversione, consegna totale all’amore di Dio, che è centro di gravitazione e di attrazione di tutto il peso della vita del credente.
- Nelle riflessione di Tommaso nel tentativo di comprendere la decisione umana esplicita elementi che anticipano l’attuale concetto di O. F.: modo di intendere il primo atto di libertà come scelta di totalità; la funzione totalizzante del fine ultimo nella vita morale; la comprensione del peccato mortale nell’opzione fondamentale negativa.
- Nella dottrina di Sant’Alfonso: comprende la vita cristiana come il dipanarsi dell’opzione fondamentale centrata sulla carità.

1.4.2. Il recente magistero della chiesa

Il magistero della chiesa recente ha fatto esplicito riferimento in senso lato al tema dell’opzione fondamentale. Numerosi testi del Vaticano II e del magistero di Giovanni Paolo II possono essere interpretati in questa chiave.
I testi, però, che fanno esplicito riferimento al concetto di opzione fondamentale possono essere ridotti fondamentalmente a tre:

1. La dichiarazione "Persona humana" al n. 10 parla dell’opzione fondamentale nel contesto del peccato in materia sessuale. Ecco quanto sostiene:
Si espone l’opinione di «alcuni» che «arrivano fino ad affermare che il peccato mortale, che separa l’uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto diretto e formale, col quale ci si oppone all’appello di Dio, o nell’egoismo che, completamente e deliberatamente, esclude l’amore del prossimo. E’ allora soltanto, dicono, che ci sarebbe l’opzione fondamentale, cioè la decisione che impegna totalmente la persona e che sarebbe richiesta per costituire un peccato mortale; per mezzo di essa l’uomo, dall’intimo della sua personalità, assumerebbe o ratificherebbe un atteggiamento fondamentale nei riguardi di Dio e degli uomini.
Al contrario, le azioni chiamate "periferiche", che, si dice, non implichino, in generale, una scelta decisiva, non arriverebbero a modificare l’opzione fondamentale, tanto più che esse procedono spesso, si osserva, dall’abitudine.
Esse possono, dunque, indebolire l’opzione fondamentale, ma non modificarla del tutto. Ora, secondo questi autori, un mutamento dell’opzione fondamentale verso Dio avviene più difficilmente nel campo dell’attività sessuale, dove, in generale, l’uomo non trasgredisce l’ordine morale in maniera pienamente deliberata e responsabile, ma piuttosto sotto l’influenza della sua passione, della sua fragilità o immaturità e, talvolta, anche dell’illusione di testimoniare così il suo amore per il prossimo; al che spesso si aggiunge la pressione dell’ambiente sociale».
Questo è quanto la Dichiarazione sostiene, ma difficilmente ci saranno teologi morali che difendono quanto sostenuto da essa. Mi sembra tuttavia che la Dichiarazione fa due tipi di apprezzamenti nei confronti dell’O. F., e cioè:
- Da una parte la si accetta: «senza dubbio l’O. F. è quella che definisce in ultima analisi la propensione morale di una persona»;
- Dall’altra mette in guardia contro due esagerazioni:
1. L’O. F. può essere realizzata con atti categoriali: «un’O. F. può essere radicalmente modificata da atti particolari, specialmente se questi sono preparati, come spesso accade, da atti anteriori più superficiali. In ogni caso, non è vero che uno solo di questi atti particolari non possa essere sufficiente perché si commetta peccato mortale».
2. Il peccato mortale si ha quanto c’è una trasgressione con contenuto concreto: «secondo la dottrina della chiesa, il peccato mortale che si oppone a Dio non consiste soltanto nel rifiuto formale e diretto del comandamento della carità; esso è ugualmente presente in quella opposizione all’autentico amore, incluso in ogni trasgressione deliberata, in materia grave, di ciascuna delle leggi morali».

2. Esortazione apostolica Riconciliazione e Penitenza di Giovanni Paolo II (1984). Alla fine del n. 17, dedicato al concetto di peccato mortale e veniale, il documento mette in relazione l’O. F. con il peccato mortale. Ripropone le due esagerazioni indicate dalla Dichiarazione e afferma:
«Parimenti si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale a un atto di opzione fondamentale, come oggi si suol dire, contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l’uomo, sapendo o volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell’amore di Dio verso l’umanità e tutta la creazione: l’uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L’orientamento fondamentale quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influisce sull’imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l’opzione fondamentale, intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale».
Pur con tutto il rispetto per le affermazioni su esposte mi permetto di segnalare alcune imprecisioni nell’assunzione dei concetti dei vari teologi: una mancanza di piena oggettività nella presentazione dell’opinione di essi. Si dà una eccessiva importanza ai contenuti materiali o categoriali della decisione morale, diminuendo la funzione degli aspetti formali o trascendentali.

3. L’Enciclica Veritattis Splendor (1993) tratta in forma diretta e accurata il tema dell’O. F. nei nn. 65-70.
L’enciclica fluttua tra accettazione e rifiuto. C’è un aspetto dell’O. F. che viene decisamente rifiutato: è la dissociazione tra opzione fondamentale e le decisioni concrete. Questo rifiuto è presente in tutta l’enciclica: cf nn. 66 e 67.
Si critica la dissociazione dell’O. F. «dalla scelta degli atti particolari secondo le correnti precedentemente menzionate» (n. 66). Si afferma che «dette teorie sono contrarie allo stesso insegnamento biblico, che concepisce l’opzione fondamentale come una vera e propria scelta della libertà e collega profondamente questa scelta agli atti particolari» (n. 67).
Circa la critica mi permetto di fare due osservazioni:
- L’Enciclica sembra denotare una qualche confusione nella comprensione dell’O. F.: essa non è riducibile ad una decisione atematica e senza contenuto concreto. Essa è una decisione il cui contento attiene la piena realizzazione del soggetto agente. Un contenuto che va sviluppato e attuato con decisioni singolarizzate, cioè con atteggiamenti categoriali e atti concreti di verifica.
- L’altra considerazione parte dalla riflessione teologico-morale attuale. Da un attento esame degli studi sul tema mi sembra che non ci siano autori che intendano l’O. F. come una decisione atematica e senza contenuto concreto. Anzi si mette l’accento sulla relazione tra libertà trascendentale e libertà categoriale. Alcuni insistono più sull’una e altri sull’altra.
L’Enciclica, comunque, ai nn. 66-68 accetta la categoria antropologico-morale. Si parla di una concezione biblica dell’opzione fondamentale e la si assume in pienezza, anche se vengono segnalati alcuni criteri per la sua retta comprensione e per il suo utilizzo nella prassi pastorale.
Ribadendo che «la libertà non è soltanto la scelta per questa o quell’azione particolare, ma anche, entro questa scelta, decisione su di sé e disposizione della propria vita» (n. 65), non si accetta la distinzione tra «libertà fondamentale o trascendentale» e «libertà categoriale».
Questo rifiuto è una conseguenza dell’idea di libertà che è stata esposta ed è il presupposto per poter giustificare l’accettazione dell’O. F.. Del resto tale definizione articola bene il significato della libertà umana, sintesi dialettica tra orizzonte di totalità e limitazione di concrezione.
Personalmente ritengo che sia la possibile deviazione come la concezione ortodossa dell’O. F. verranno ridimensionate se tra l’O. F. espressione della libertà trascendentale e l’emissione degli atti, espressione della libertà categoriale si introdurrà la categoria intermedia di atteggiamenti.
Con essa si mitigherebbe la tensione che nasce dalla distanza sussistente tra opzione e atti, dall’altra l’opzione fondamentale diverrebbe più concreta e gli atti concreti sgorgherebbero meglio da decisioni settoriali.
Questa funzione fu svolta nella tradizione teologico-morale dalla categoria dell’abito, virtù o vizio. L’atteggiamento prenderebbe oggi il posto che nella riflessione tradizione fu della virtù.