mercoledì 7 ottobre 2015

NOI ANNUNCIAMO CRISTO CROCIFISSO

Crofissione di M. Grunewald (1480-1528) dipinta tra il 1512 e il 1516.

Introduzione al corso

PARTE PRIMA La definizione classica di teologia è quella di Agostino (353-430), cioè: theologia est fides quaerens intellecturn. Gli scolastici ameranno dire: credo ut intelligam, itelligo ut credam! La teologia è la fede che cerca di comprendere se stessa e cerca di farsi comprendere dagli altri. E’ l’approfondimento sistematico dei contenuti della fede. Come avviene questo approfondimento sistematico? Di quali principi bisogna avvalersi per conseguire tale obiettivo? La riflessione teologica si è servita di due principi basilari: il principio architettonico e il principio ermeneutico. Il principio architettonico è un mistero fondamen¬tale della Rivelazione che viene scelto perché faccia da base su cui ordinare tutti gli altri misteri ed eventi della storia della salvezza Il principio ermeneutico è quella verità primaria alla luce della quale il teologo cerca di comprendere ed interpretare i singoli aspetti della storia della salvezza. Secondo molti autori, per lo più protestanti, i due principi sono distinti soltanto formalmente non materialmente e cioè: lo stesso mistero che fa da base per la strutturazione della Parola di Dio e da principio di interpretazione della medesima. Invece molti altri autori, fra cui Origene, Clemente Alessandrino, Tommaso, Suarez, Chenu, K. Rahner, Bultmann, Tillich, ritengono che i due principi non sono distinti soltanto formalmente, ma anche materialmente, in quanto il principio architettonico è tratto dalla fede, mentre quello ermeneutico è ricavato dalla ragione, la quale produce la visione del mondo di cui valersi per l’interpretazione del messaggio rivelato. Anche secondo me i due principi sono materialmente distinti e hanno una provenienza diversa: quello architettonico è derivato dalla Rivelazione; quello ermeneutico dalla filosofia. Il principio architettonico è sempre tratto dalla Rivelazione. Questo è indispensabile, perché se anch’esso fosse desunto dalla filosofia, anche se nel sistema fossero incorporati dati biblici, l’insieme non potrebbe avere altro che una visione filosofica, e non una visione teologica. Un esempio classico di detta operazione è quella fatta da Hegel (1770-1831). Nel sistema hegeliano sono analizzati tutti i princi¬pali misteri del cristianesimo, ma privati della loro forza soprannaturale perché asserviti ad un progetto e ad un metodo essenzialmente filosofici. Il principio ermeneutico deve essere di provenienza filosofica, perché il metodo teologico si propone di spiegare la fede alla ragione e di fare acquisire a questa una maggiore comprensione della fede. Questa operazione, ovviamente, non si ottiene con l’aggiunta di qualche altro mistero a quelli che già vengono riconosciuti. Infatti, fede più fede non può dare come risultato nient’altro che fede. Invece è analizzando la fede mediante il lume della ragione che si acquisisce l’intelligenza della fede. La ragione, in genere, dispone di una triplice forma di conoscenza: ordinaria, scientifica e filosofica. Di queste tre forme, quelle che hanno maggiore importanza, per l’intelligenza della fede, sono la prima e l’ultima. Mediante la conoscenza ordinaria, che non è né sistematica né approfondita, si giun¬ge a quella comprensione della fede che è propria del cristiano comune. Vale il detto che afferma: come l’uomo è naturalmente filosofo, così il cristiano è naturalmente teologo. Per contro, facendo ricorso alla conoscenza filosofica, tec¬nica e scientifica, che non è altro che la conoscenza ordinata e approfondita per pervenire ad una spiegazione completa e conclusiva delle cose, si raggiunge quella comprensione ordinata e approfondita della fede che è propria della teologia. Ma, poiché non si dà una sola spiegazione filosofica della realtà, bensì tante quanti sono i sistemi filosofici (e la storia della filosofia ce ne fornisce una grande quantità), ecco che il teologo, per interpretare il messaggio cristiano, ha a sua disposizione non un unico principio ermeneutico, ma molti. La stessa cosa può dirsi del principio architettonico. Dato che esistono molti misteri centrali e fondamentali della storia della salvezza, il teologo ha la possibilità di scegliere fra vari principi architettonici. Sintetizzando: a. I principi su cui si fonda tutta l’attività del teologo sono due, quello architettonico e quello ermeneutico, il primo di origine biblica e il secondo di origine filosofica. b. Sia del principio architettonico che di quello ermeneutico sono possibili molteplici ver¬sioni: di quello architettonico, perché molti sono i misteri che possono essere posti alla base di una sua strutturazione generale; di quello ermeneutico, perché molteplici sono le visioni filosofiche che si possono utilizzare come strumenti di interpretazione della storia della salvezza. Logicamente, il discorso che abbiamo fatto sui principi supremi della teologia, vale anche per tutte le sue parti e quindi anche per la teologia morale. Anche nella elaborazione di questa si adopera un principio architettonico e un principio ermeneutico. 2. La scelta dei principi supremi Ma quali sono le ragioni che inducono il teologo a dare la sua preferenza ad un principio architettonico od ermeneutico piuttosto che ad un altro? Tra i principi ermeneu¬tici perché si sceglie la filosofia di Heidegger anziché quella di Kant, di Hegel, di Adorno, di S. Tommaso? Questo è un interrogativo cui non si può dare una risposta univoca. Molto dipende da come un teologo concepisce i rapporti tra i due principi, e più generalmente tra fede e ragione, tra fi¬losofia e teologia. Se si assegna il primato al principio architettonico, allora si sceglie un mistero e poi si sceglie la filosofia più confacente per l’interpretazione di esso. Se, per esempio, si sceglie il mistero della bontà di Dio, allora è bene scegliere il platonismo; se si è conquistati dal mistero della libertà divina, allora si sceglie l’occasionalismo. Se invece il teologo è preoccupato del principio ermeneutico, con la preferenza di una particolare visione del mondo, allora la scelta del principio architettonico gli viene dettata dalla conformità di un particolare aspetto del messaggio cri¬stiano con tale visione. Generalmente i teologi del nostro tempo danno la precedenza al principio ermeneutico, e subordinano a questo la scelta del principio architettonico. La loro prima preoccupazione è di effettuare una proclamazione del Vangelo che sia intelligibile ed efficace. Ma sanno che per riuscire in questo occorre conoscere la mentalità, le istanze, le attese, il linguaggio dell’uomo del nostro tempo. Anche io seguo questa metodologia, per questo motivo in questa prima lezione getterò uno sguardo sul mondo della cultura attuale, in particolare su quello della filosofia. PARTE SECONDA La mia ricerca teologica da tempo si interessa del rapporto tra cristia¬nesimo e cultura contemporanea, definita cultura postmoderna e intesa come cultura diffusa, luogo dove esercitiamo la nostra libertà. Par cristianesimo va inteso non solo quello del catechismo, delle encicliche, dei manuali e saggi di teologia, ma soprattutto quello delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, dei credenti di strada. Il nostro tempo, si sa, è un tempo di gradi paradossi, di grandi contraddizione! Mai come in questo tempo sono vissuti così tanti geni teologici (cattolici, protestanti, ortodossi), ma anche mai come oggi è venuta meno la capacità della chiesa di parlare alla gente e della sua dottrina. Non è un segreto che la fede cristiana in occidente, continui a perdere di incidenza, di fascino, di credibilità, di provocatorietà. E dove ancora resiste è una fede stanca, una fede senza gioia. Che cosa dunque è successo al cristianesimo? Sembra avverarsi la triste profezia di Nietzsche (1844-1900) circa il monoteismo e il cristianesimo! Intorno a questa domanda ruota questa mia lezione preliminare, in cui cerco di dare risposte plausibili. 1. Che cosa ci è successo Mi introduco con le parole di Umberto Galimberti (n. nel 1942), studioso attento alle problematiche del nostro tempo. «Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo. Una descrizione attraverso parole stabili, collocate ai confini dell’universo per la sua delimitazione e all’interno dell’universo per la sua articolazione» (L’ospite inquietante. Il nihilismo e i giovani, 2007). Questo è il punto: l’uomo abita sempre una descrizione del mondo fatta da parole stabilite e programmate. E’ proprio la diversa scelta e composizione delle parole che regge la differente descrizione del mondo, per esempio di un orientale rispetto ad un occidentale. «Basta avere almeno quarant’anni per percepire la sensazione di distacchi epocali da interi mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno completamente dimenticando» (Aldo Schiavone in Storia e destino, 2007). Gli occidentali sono cambiati nelle loro abitudini e nei loro comportamenti, nel loro modo di vivere e di sognare, di amare e di viaggiare, di lavorare e di attendere alla ricerca della felicità. Un mutamento rapido, repentino, radicale, di cui sfuggono le premesse! Si tratta di un vero e proprio inedito! Anche nella vita della chiesa è possibile verificare cambiamenti significativi. Pur essendo restata, la chiesa, fedele ai segni della cristianità passata, nella maggioranza dei cristiani si è instaurato un regime di dualità tra la vita e la fede. La visione di fede e la preghiera non incidono più sul vissuto quotidiano. Per molti giovani la fede rappresenta sempre più un evento dell’esperienza infantile. L’elemento religioso, pur non scomparso, assume una notevole marginalità. Ma come è potuto accadere tutto ciò? E così velocemente? 2. La perdita di ancoraggio e di coraggio Per cogliere al meglio detto notevole cambiamento è necessario, secondo me, prendere atto che è cambiata la descrizione e, di conseguenza, il concetto di mondo. Il cristianesimo ha, da una parte, perso l’ancoraggio che aveva trovato nelle parole stabili della precedente descrizione del mondo e non ha ancora avuto il coraggio, se non per un breve momento, il Concilio Vaticano II (1962-1965), di confrontarsi seriamente con le nuove convinzioni circa il mondo. Da metà ottocento, è infatti possibile enumerare cinque grandi stagioni di mutazione culturale che hanno messo in discussione, una dopo l’altra, la concezione del mondo. In realtà non si tratta di un processo inedito: si tratta del risorgere delle tensioni della modernità che, a causa delle guerre di religione, erano state sopite. Entriamo nei particolari. 1. Prima tappa. Charles Darwin (1809-1882) scioglie la comparsa dell’uomo sulla terra dal legame con Dio, invitando a considerare l’origine della specie umana, piuttosto che proveniente dall’alto (la creazione), avere una comune parentela con altri animali. E’ un primo attacco alla cultura occidentale! Troviamo, poi, la prima (1864) e la seconda Internazionale (1896), che tentano trasformare la protesta di Marx (1818-1883), «non possiamo attendere il paradiso!», in programma politico. Freud (1856-1839) riformula il concetto di "anima", trasformandola in centro di aggregazione energetico, spogliandola di ogni riferimento trascendentale. L’avvio di quella che normalmente viene indicata come seconda rivoluzione industriale (tra il 1856 e il 1878 e si conclude nel 1890) getta le basi per l’espansione globale del mercato, di cui oggi siamo spettatori, a volte impauriti. In quegli anni si sviluppano, infatti, l’impresa della General Motors (1908) e quella della Ford (1903), nascono la Coca Cola (1886) e la Fiat (1899). La terra non viene più percepita come valle di lacrime, ma come un posto nel quale ci si può agevolmente installare. Viene meno, sentenzia Nieztsche, il platonismo. Viene meno, cioè, un modo di vedere e vivere il mondo secondo una duplicità di piani: quello ontologico e quello assiologico (il mondo eterno e vero, da una parte, il mondo finito e finto, dall’altra) che assegnava una determinata finalità alla vita umana: l’uomo, dotato di un’anima eterna, aveva nel cielo la sua patria. Perde fascino e attrattiva la parola "eternità", mentre assume forte risonanza e consistenza la parola "finitezza". La ricaduta di queste nuove concezioni nella coscienza religiosa è stata enorme e inquietante. Ci si chiede: come si può parlare di un fine escatologico dell’uomo, se non si sa più cosa sia l’eternità? Quale consistenza ontologica attribuire alla realtà di Dio? Non è più il finito a dover rendere ragione di sé rispetto all’eterno, ma esattamente il contrario. Tuttavia i concetti di finitezza e di storicità non sono stati senza ricaduta per il cristianesimo, in modo particolare per capire meglio il problema della rivelazione, dell’incarnazione e del mistero pasquale. 2. Seconda tappa La seconda tappa della revisione della cultura occidentale ha inizio nel primo decennio del Novecento. Accade che non appena il paradiso, ovvero la traduzione popolare della parola "eternità", viene messo tra parentesi, viene meno anche la forza unificante e convergente. Il finito appare subito come luogo di molteplicità, di possibilità infinite, di plurale. Si colloca tra il 1905 e il 1908 una nuova stagione di rivisitazione della rappresentazione classica del mondo. In questo tempo vivono geni come: Einstein (1879-1855), Picasso (1881-1973), Schönberg (1874-1951), Joyce (1882-1941) e Proust (1871-1922), Freud (1866-1939), Thomas Mann (1875-1955), Pirandello (1867-1936), e Kafka (1883-1824), che fanno traballare il primato del vincitore sul vinto, del forte sul debole, del predatore sulla vittima. In questo tempo nasce Kurt Gòdel (1906-1978), il quale sancisce l’impossibilità di rinvenire principi primi da cui derivare la matematica. La riflessione filosofica scopre la fenomenologia di Husserl (1859-1838) e la nascita del pensiero ebraico sull’alterità grazie a Buber (1878-1965) e a Rosenzweig (1886-1929). Attraverso gli apporti di questi maestri inquietanti giunge a compimento la critica alla ragione moderna, troppo violenta, troppo autoreferenziale. Perde di fascino la parola "verità", al cui posto si installa il tema dell’alterità, dell’apertura e ospitalità del diverso. La coscienza del soggetto umano non è più il luogo dove abita solo una verità, ma diventa un "parlamentino": in essa ci sono tante voci, che si sovrappongono e collidono. Non ci sfugga la portata della sfida: l’urgenza di pensare insieme alterità e verità ha portato alcuni settori della teologia a risco¬prire la forza del dogma della Trinità, dove l’unità della natura non sopprime la differenza delle persone. Siamo solo all’inizio di un pensiero e di una prassi trinitari. 3. Terza tappa La terza tappa del viaggio che ci sta portando alla scoperta del nostro tempo ci conduce nei campi di sterminio nazista e di Auschwitz in particolar modo. Qui nel 1942, secondo un’ipotesi di Galimberti, ha origine l’epoca della tecnica, la quale si caratterizza per la ricerca finalizzata al potenziamento dei mezzi più celeri e atroci di far soffrire e uccidere. Questa ricerca segna lo sganciamento della tecnica dal diretto legame con i bisogni del soggetto umano. Si impone l’assioma: ciò che è tecnicamente sperimentabile va in ogni modo sperimentato. E’ l’inizio di quel processo di perfezionamento dei prodotti della ricerca tecnica, che prescinde dalle necessità umane, ma che le ridefinisce di continuo. Questo modello tecnologico ha avuto grande successo per i cambiamenti che ha realizzato nel migliorare le condizioni medie della vita degli uomini: dall’igiene alla salute, dai viaggi alle comunicazioni, ma ha anche inciso sulla concezione del mondo e della vita umana. Il mondo non è più un insieme di sostanze stabili e fisse, ma è costituito da relazioni. La vita umana non è guidata da faticose conquiste da preservare e migliorare, ma da possibilità, da occasioni. Che cosa ne è della legge naturale, in un mon¬do che non ammette più alcun elemento di stabilità per le cose e per le persone? Viene messo in crisi soprattutto il primato dell’aristotelica sostanza, e con essa quello del "giusto mezzo" quale cardine delle virtù. Non dimentichiamo, poi, la forza dirompente dell’olocausto sull’inconscio collettivo per quanto attiene l’immagine di Dio. Di fronte all’olocausto chi ha ragione: il prete che predica la creazione divina degli uomini o Darwin che dimostra la loro derivazione dalle scimmie? Chi ha ra¬gione: il catechista che proclama la santità dell’anima oppure Freud che la diagnostica quale pura energia disponibile tanto all’eros quanto al thanatos, all’amore e alla morte? Quale giustizia divina, quale paradiso, potrebbe risarcire le vittime di Hitler (1889-1945), di Mussolini (1883-1945), di Stalin (1878-1953), di Franco (1892-1975) e tutte le rivoluzioni del secolo breve. Nei campi di concentramento muore il Dio della morale, il Dio che fondava la morale sulla paura! Viene, tuttavia, aperta la via per l’annuncio del volto umano di Dio, rivelato dalle parole e dalla vita di Gesù. La prassi ecclesiale spicciola fatica ancora ad assumere e rendere queste nuove prospettive proposte di evangelizzazione. 4. Quarta tappa La quarta tappa del nostro viaggio ci conduce al fatidico sessantotto, l’anno in cui gli insegnamenti di Nietzsche alimentano la fantasia del cittadino medio. Detti insegnamenti possono essere così sintetizzati: il principio della singolarità, dell’unicità, della corporeità, della musica orgiastica, della scelta, dell’autonomia del soggetto. Tutti elementi che portano all’individualismo. Tuttavia lo slogan più autentico del sessantotto è: "Vietato vietare", con il quale si attacca la tradizione culturale e morale del passato, giudicata eccessivamente irrispettosa della singolarità e della diversità. Ognuno è per sé, e tutti sono uguali! Vengono messe in discussione le forme classiche di vita (matrimonio, paternità, maternità), i ritmi di vita (adolescenza, giovinezza, maturità), i mestieri. Viene proclamata l’emancipazione sessuale e sociale della donna! Più in generale si attacca in modo indiretto un altro grande pilastro della tradizione cristiana e della tradizione occidentale: il pensiero di Sant’Agostino (354-430) fondato sulla parola e sul concetto di "sacrificio": parola chiave, centrale nella descrizione occidentale del mondo. Concetto che ha caratterizzato la concezione sociale e culturale del mondo intero e ancora caratterizza il mondo della povertà e dell’indigenza, con scarsa mobilità sociale, ossia fino agli anni del boom economico. 5. Quinta tappa La quinta tappa ci conduce all’istanza che ha deciso la ristrutturazione della mentalità occidentale circa la crisi dell’autorità, della legge o del riconoscimento del vincolo della legge quale garanzia di una convivenza pacifica. Una decisa svolta contro il concetto di autorità può essere riscontrata: - Nello scoppio e nel proseguo della Seconda guerra mondiale, in cui è prevalsa più l’autorità della forza che non la forza dell’autorità, - Nella lotta contro il terrorismo degli anni settanta, - Nel crollo del muro di Berlino (novembre 1989), - Negli scandali finanziari (in Italia legati all’indagine "Mani pulite"), - Nell’attacco alle Torri Gemelle (11 sett. 2001), - Nella mescolanza delle religioni e delle culture, - Nell oceaniche migrazioni di popoli. Cosa è veramente cambiato? Il punto nodale è che nessuno oggi è in grado di far prevalere le proprie idee invocando il ruolo che riveste. Al posto dell’autorità si è imposto il principio della convinzione. La forma elementare della convivenza è quella della democrazia, che vuol dire: libera determinazione del singolo. Da qui, anche, l’indebolimento dell’autorità nella chiesa e della forma territoriale della presenza ecclesiale, legiferato dal diritto canonico, a favore di una forma di fede che si esplica nei movimenti, nelle associazioni, nelle comunità di base. Nessuno ancora sa come mettere insieme l’autorità e il carisma, divenuti ormai paralleli. In questo modo divengono comprensibili quei sentimenti di spaesamento e di precarietà che emergono in tutti i settori della vita. Quale nuovo ordine è sorto con l’arrivo delle nuove parole chiave dell’occidente: finitezza, alterità, tecnica, possibilità, democrazia? Non è facile dirlo. Restano grandi mutamenti, con tante conquiste, ma anche con grandi sfide. L’occidente, pur essendo in mezzo a un innegabile enorme progresso, ma ad un vacillante benessere, deve fare i conti con il crescente tasso di denatalità, l’inconcepibile blocco della gioventù, la subordinazione delle donne sul piano delle opportunità sociali, lavorative e politiche, la stagnazione economica, la questione del rapporto con il diverso e la sua identità e la sete di giustizia che brucia questo nostro mondo. PARTE TERZA Dovendo descrivere il presente, a partire dalla riflessione filosofica, cioè dalla lettura che del presente ci viene offerta dalla ragione postmoderna, possiamo cogliere due caratteristiche distinte ma complementari: 1. il presente è il tempo del frammento e della molteplicità. La diversità è principio fondamentale che guida l'agire nell'epoca della complessità. La tolleranza è la categoria guida del vivere sociale. 2. il presente è il tempo del dopo, del postmoderno, cioè l'epoca che viene dopo: dopo il moderno, dopo il nichilismo. Dopo le ideologie e dopo i miti, che hanno caratterizzato il pensiero occidentale, generando totalitarismi e violenze. Il presente è anche l'epoca in cui ci sono grandi mutamenti che pongono nuove e urgenti domande, a partire dall'etica (si pensi alla bioetica), per finire alla politica (si pensi alla globalizzazione) e si impongono scelte sempre più pressante (si pensi all’ecologia). Non ci sono più i blocchi di potere a spaventare il mondo, ma l'imprevedibilità di ciò che può accadere. Di fronte ad una estromissione da parte della modernità e del nichilismo che avevano estromesso la religione dallo sviluppo storico, dichiarandone la morte e l'estinzione progressiva, riemergono conflitti epocali e di civiltà che sono di origine religioso. Il presente pone, tuttavia, domande fondamentali riguardanti la vita, la morte, la sofferenza. I fatti epocali, che vanno accadendo, aprono nuovi scenari, il cui principale problema è il convivere di civiltà diverse. Una riflessione filosofica frammentata e disincantata stenta a trovare soluzioni a queste sfide, mentre la gente sente il bisogno di essere riconosciuti e di essere chiamati per nome. 1. La frammentarietà del presente La prima caratteristica del nostro tempo è, dunque, la frammentarietà. La riflessione dell’inizio millennio si muove, infatti, entro un orizzonte unico, le cui categorie dominanti sono: la molteplicità, la pluralità e la differenza. Prendendo in considerazione l'arcipelago di filosofie, di stili di vita e di modelli teorici, si ha l'impressione di avere a che fare con qualcosa «che ha perduto la consistenza di una trama compatta e unitaria». E’ evidente che la totalità, tipica della modernità, ha ceduto il posto al frammento postmoderno e che la divisione e la separazione regnano al posto dell’ordine e dell’unità. Tutto è divenuto più fluido, discontinuo, interrotto. Concepire visioni globali e univoche è ormai impossibile e improponibile. A livello etico riferirsi a valori assoluti è assurdo. In questo mondo in frantumi non è più pensabile un linguaggio o una teoria, capaci di mettere insieme universi inconciliabili. E’ necessario ammettere la pluralità, la caoticità del reale e l'incomunicabilità ontologica delle sue parti. Il postmoderno viene così a significare tutto ciò che ha a che fare con l'eterogeneità, la diversità, la frammentazione, l'indeterminatezza, la sfiducia nelle realtà universali. Si enfatizza, in un certo senso, la parte volatile, caduca, mobile, effimera, insita nella modernità, mentre si è perduto le realtà eterne, il nucleo fisso. Si è venuta a creare, in definitiva, una condizione di tale incertezza, che la riflessione filosofica è rimasta senza fondamenti metafisici, la scienza senza certezza, l'etica senza verità, la politica senza giustificazione. 1.1. La filosofia e il problema del fondamento L'impossibilità di avere visioni globali e univoche e la dispersione e moltiplicazione dei discorsi si suole ricondurla alla crisi dei fondamenti o delle metanarrazioni. Dopo che si è imposto il pensiero di Nietzsche, è avvenuto che il fondamento del pensare è andato in frantumi, per cui non si ha più un unica idea di filosofia, ma una molteplicità di modi di intendere e utilizzare questa parola. Ne consegue che la frantumazione ha originato una pluralità di linguaggi difficilmente riconducibili ad unità. L'uomo post-metafisico può fare a meno delle categorie della metafisica. Piuttosto che con strutture eterne a-priori, si esprime con le categorie di storicità, di temporalità e di finitezza. Sono queste i parametri che l’essere umano esperisce nella considerazione della sua esistenza. Le varie problematiche post-metafisiche confluiscono in un pensiero negativo, nel nichilismo estremo, che si può spiegare con le parole di Nietzsche: «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al perché?». Il concetto di essere viene concepito, alla maniera di Heidegger (1889-1876), come evento, in quanto questo, identificandosi con il tempo, si dissolve nel divenire, e poi nel nulla. L'essere si risolve nel tempo! L'essere è il tempo! L’essere non è il fondamento, la struttura stabile e in sé, ma il differimento sempre oscillante e vacillante, precario ed evanescente, come assimilato alle forme transitorie della caducità creaturale del mondo storico. L'essere si dà come apparire nelle forme finite, caduche ed effimere del divenire, del nascere e morire. Nessuna struttura stabile ed eterna è possibile postulare. L'essere e la vita sono inclinati verso il nichilismo. L'essere, perciò, si confonde con l'apparire e la vita si riduce ad un mobile gioco di apparenze: «Una tale concezione dell'essere, vivente e declinante (cioè mortale), è più adeguata, tra l'altro, a cogliere il significato dell'esperienza in un mondo che, come il nostro, non offre più (se mai l'ha offerto) il contrasto fra l'apparire e l'essere, ma solo il gioco delle apparenze...». La nostra è l’epoca delle immagini, in riferimento al ruolo sempre più pervasivo che la comunicazione per immagini vi ha assunto. In questo scenario virtuale si realizza una sorta di derealizzazione, di perdita della realtà, cioè l'immagine tende a prendere il posto della realtà e l'essere si risolve nell'apparire. L'attrito con la realtà scompare nel groviglio di immagini che invade i nostri monitor. Si sta, cioè, perdendo la capacità di vedere, al di là della colluvie d'informazione, volti e realtà, messaggi e spunti per la riflessione. La differenza fra realtà e immagine è talmente sfumata che colpire un bersaglio reale, viene confuso col colpire il bersaglio virtuale di un videogame. Nel mondo virtuale la realtà esterna tende a scomparire, ma scomparendo dissolve l’orizzonte oltre il quale ci sono le nostre misure, i nostri schemi. Immagini e parole diventano informazione di superficie, mentre la coscienza vive un profondo senso di solitudine. All'interno di questo quadro di caducità e di virtualità, non si dà assolutezza delle cose, non si dà una sola verità, ma molteplici verità. Ne consegue che la contestualità e la contingenza diventano principi orientativi, in cui si avverte che il legame della ragione postmoderna a orizzonti, tradizioni, e situazioni sia spezzato. «I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» e non c'è nulla di ciò che è contestuale che si ponga al di là dell'orizzonte del detto. Scrive Derida (1930-2004), «non c'è fuori testo». Ma se la verità è interpretazione, allora ci sono differenti verità, nessuna delle quali può pretendere di essere assoluta. In altri termini la verità viene rinchiusa all'interno dei diversi orizzonti linguistici che, a loro volta, non rimandano più al di là del linguaggio, ma risultano essere giochi chiusi in se stessi, all'interno delle proprie regole e delle proprie logiche. Da questi orizzonti linguistici non si esce più, né per segnalare un mondo che sta al di là delle parole, né per comunicare con l'altro, che a sua volta è rinchiuso all'interno del suo orizzonte linguistico, le cui regole e i cui significati non sono traducibili e comprensibili per tutti. E’ inevitabile che nell'universo linguistico regni l'incomunicabilità. Il modello di questo sapere, secondo Eco (n. nel 1932), è rappresentato dal labirinto. Si tratta di un pensiero debole, congetturale e contestuale, che non può essere fondato su premesse salde ed indubitabili, su quelli che un tempo erano definiti i fondamenti del sapere. Il sapere nella concezione attuale è senza fondamenti e anche senza verità. Se, infatti, per verità si intende quella realtà che si rinviene nei linguaggi, pregiudizi e prospettive, allora non si dà una verità che abbia la possibilità di confrontarsi con ciò che è fuori, cioè il mondo reale, o con le raffigurazioni ed esperienze del mondo. «Il vero Nichilismo - ha scritto A. D'Agostini - è sapere che il mondo vero non esiste; nichilismo estremo è sapere che non esiste neppure il mondo, e che perciò non c'è alcuna verità né falsità». Questa convinzione implica l'accettazione della perdita del senso dell'esistenza e la definitiva rinuncia al fondamento. Il pensiero rinuncia a cercare e si compiace di questa condizione. G. Vattimo (n. nel 1936) ha scritto: «non vi è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba fondare». La possibilità di poter riunire la molteplicità dei linguaggi in un unico linguaggio (metalinguaggio), che possa spiegare in modo sintetico la pluralità contraddittoria della realtà, viene definita illusione. Il pensiero debole e la crisi dell'ideologia ha segnato, per alcuni i maestri del nostro tempo, il punto di non ritorno. Il relativismo è la convinzione largamente condivisa! Il relativismo radicale ha travolto, dopo il fondamento, i vari saperi, a partire dalla filosofia, coinvolgendo anche il sapere scientifico-tecnico, e, in un modo, particolare l'etica e la politica. 1.2. L'ambito scientifico Il relativismo conoscitivo coinvolge anche la cultura tecnico-scientifica, in quanto la sfida della complessità mette in crisi il dogma dell'oggetto identico, della sua ripetibilità sperimentale e della sua uniformità. Anche la scienza, i suoi dati, l'esperienza, dipendono da teorie, paradigmi, schemi concettuali, modelli, linguaggi. T. S. Kuhn (1922-1996) con il saggio «La struttura delle rivoluzioni scientifiche» (1960), mise in discussione la teoria falsificazionista di estrazione empiristico-razionalistiche di Carnap (1891-1970) e di Popper (1902-1994), sostenendo che il progresso scientifico non è un insieme di conoscenze teso scoprire la verità delle cose, ma un insieme di «rivoluzioni scientifiche», a partire da paradigmi che tendono a specializzarsi. Dava, così, inizio al dibattito sul relativismo nell’ambito della conoscenza scientifica. Con Kuhn tutte le teorie scientifiche diventano «incommensurabili», cioè non è possibile confrontare o commisurare le varie teorie tra di loro e sceglierle, perché non esiste una teoria delle teorie capace di fornire un criterio oggettivo di scelta. La molteplicità, anche in ambito scientifico, non è riconducibile ad unità. Non si parla, infatti, più di un metodo unico, ma di procedimenti scientifici diversi, molteplici e sempre più incerti. Le teorie, poi, vengono considerate sempre interpretazioni. Nello stesso tempo lo sviluppo delle scienze, come la microfisica, ha messo in crisi il canone tradizionale della sperimentabilità, della visibilità, percepibilità ed esperibilità. Quando, infatti, si va alla microfisica i canoni dell'oggettività, dell'osservazione subiscono una trasformazione. Ad esempio, l'illuminazione cui è sottoposta una micro particella può modificarla nel momento in cui vene illuminata, per cui non se ne può mai avere un’osservazione oggettiva. Per il sociologo Feyerabend (1924-1994) lo studio della storia della scienza dimostrerebbe che: la ricerca scientifica è dominata da «miti, suggestioni ed emozioni». Insinua, quindi, il dubbio che nelle procedure cognitive della scienza, nelle quali possono essere presenti fattori di ordine irrazionale, può venir meno la possibilità di un criterio di valutazione oggettiva. In definitiva tutti i vari metodi e procedure «sono soggetti alla stessa variabilità dei risultati che vengono giudicati». In conclusione, se i processi cognitivi della scienza non sottostanno a un criterio oggettivo, allora anche nell'ambito scientifico non si danno più fatti, metodi e certezze, ma solo interpretazioni. Si verifica quella che si è definita «operazione ermeneuta» della scienza, favorendo la situazione d'incertezza. Quindi anche la scienza perde quella forza che le aveva ottenuto la ragione moderna e si scopre debole e incerta. 1.3. L'etica e la politica L'incertezza coinvolge anche l’etica e la politica, che dovrebbero essere a fondamento della convivenza umana. Anche qui ad una ideologia fondamentale si sostituisce una pluralità di narrazioni, il cui senso e la cui logica non sono garantiti da un'idea o verità oggettive. Nella postmodernità non c'è posto per le grandi narrazioni ideologiche tipiche dell'epoca metafisica, perché è venuta meno una qualsiasi procedura tendente a legittimare una qualsiasi verità. Si assiste all'eclissi di filosofie totalizzanti, come il marxismo, che pretendevano di offrire risposte a ogni domanda di senso, a partire da una posizione dogmatica e ideologica. E’ largamente diffusa e condivisa la convinzione secondo cui la nostra è un epoca caratterizzata dal venir meno di tensioni progettuali e ideali, non solo in ambito politico e ideologico, ma anche etico e religioso. E’, anzi, imprescindibile abbandonare qualsiasi idea universalistica come presupposto della partecipazione e dell’impegno nel mondo. Ciò ha riflessi soprattutto sulla politica che, dovendo rinunciare a fondamenti ideologici, deve divenire mediatica e sempre più virtuale. E’ la politica che insegue gli indici di ascolto, che teme i sondaggi e che diventa sempre più videopolitica. L'immagine, anche qui, sostituisce la realtà, per cui si assiste ad una sua progressiva spettacolarizzazione. La frammentarietà è percepibile nello sgretolarsi progressivo delle comunità di appartenenza. Il partito, la chiesa, il paese, la cerchia di persone, sono realtà che vanno erodendosi di fronte all'urbanizzazione, alla diffusione dei mezzi di comunicazione, all'omologazione e all'isolamento della vita metropolitana. La frammentarietà postmoderna si connota anche come condizione di sradicamento e spaesamento. E’ in atto una profonda crisi della comunicazione e della solidarietà. L'epoca postmoderna è incapace non solo di concepire valori ideali eterni, ma anche stabilità. Siamo entrati nell'età dell'esplosione della contingenza. Ognuno si ritrova solo di fronte a scelte difficili e complesse. Il relativismo domina non solo in campo morale e gnoseologico, ma anche nel vivere quotidiano. La perdita del senso della realtà comporta, a livello etico, una strutturale fragilità, che si manifesta nell'incapacità di affrontare le difficoltà delle situazioni, di assorbire i colpi delle inevitabili disillusioni. Nell'epoca della frammentarietà, nell'illimitata pluralità delle auto-legislazioni dei singoli, è destituito di senso tanto il proibire quanto il prescrivere. Si impone sempre di più un buonismo tollerante, che altro non è se non l'assunzione da parte del relativismo morale del principio della differenza e della tolleranza, ma con la perdita di ogni criterio di demarcazione e il conseguente sbriciolarsi di tutto in una pluralità contraddittoria. In altri termini tale atteggiamento morale sconfina nella deresponsabilizzazione, cioè nell'incapacità di assumere responsabilmente una posizione, di sostenere le proprie scelte morali, o, più in generale, di mantenere un'identità. Anche l'identità individuale risulta, infatti, frammentata, indefinita. Piace astenersi dal contrarre impegni a lungo termine, di non giurare eterna fedeltà a nessuno e a nessuna causa, in un certo senso di avere un'identità adottata sul momento, come una veste che si può dismettere e non una pelle, che aderisca «troppo strettamente alla persona». Nell'epoca in cui la ragione sembra non dominare più il tutto e la frantumazione è sentimento dominante, la strategia vincente è quella di astenersi dal contrarre impegni a lungo termine e così dal professare una verità o una religione. Se poi rivolgiamo l’attenzione sul cristianesimo, ci piace mettere in risalto quasi esclusivamente l'aspetto morale. La ricerca e la ragione non sono aperte al trascendente e, quindi, alla fede. La morale senza la fede è impoverita e indebolita. Nell'interpretazione nichilista - si legge nella Fides et ratio - l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio. A livello etico si afferma un nichilismo dolce, un «fai da te» relativistico, che «prende origine dalla metamorfosi del principio di autonomia» della modernità. Prende origine, dicevamo, ma ne è un riflesso sbiadito!